Gigi Radice l'uomo dell'altro grande Torino

Germano BOVOLENTA

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Un ritaglio di giornale, una pagina della Gazzetta di lunedi' 17 maggio 1976: Torino campione d'Italia dopo 27 anni. Una grande foto con Gigi in trionfo, Castellini e Claudio Sala a passo di carica, Paolo Pulici con i fiori.

Graziani con il tricolore, il tracagnotto Pecci in groppa a Caporale.

Gli occhi azzurri di Radice azzurri diventano liquidi. Si parla del Toro, solo del Toro e i ricordi sono cascate di acqua fresca.

Gigi Radice si immerge nella sua storia e racconta quel Torino. "E' nato non dico male, ma così così, senza entusiasmare.

Le prime amichevoli le abbiamo perse e qualcuno, no, non nel nostro gruppo, cominciò a storcere il naso. Tutto qui?". Gioca con un pezzo di carta, disegna un campetto, fa i cerchietti e mette giù i ruoli e i nomi. "Siamo stati i primi a fare pressing.

Molto movimento senza palla, il dai e vai in velocità. Quel Toro era una squadra moderna, che s'ispirava con metodo e chiarezza alla scuola olandese.

Il modello era l'Ajax, il calcio totale, nuova luce e visione in Europa. Quel calcio mi ha affascinato subito.

Già a Cesena cercavo, diciamo pure con buoni risultati, di portare in campo quelle concezioni.

Oddio, è rischioso, non è facile applicare il fuorigioco, far scattare i meccanismi giusti. Ma è molto attraente e riempie di gioia".

 

E i giocatori?

"Mi seguono sin dal primo giorno, con grande attenzione e curiosità. Ci sono problemi, inevitabili errori ma - ripeto - il clima è così interessante che diventa bello persino sbagliare.

Quello scudetto, è stato poi giustamente sottolineato dai commentatori, corona una intelligente opera societaria. In testa al gruppo c'era il nostro straordinario presidente Pianelli, la ricostruzione è partita da lui e dai tecnici che aveva scelto prima".

Quel Toro aveva anima e fierezza. E Radice sorride e aggiunge: "E mentalità vincente. Andavamo in campo per imporre il nostro gioco, contro tutti.

Ci siamo quasi sempre riusciti, spinti anche dalla forza e dall'immensa eccitazione della città. L'hanno detto e scritto più volte: abbiamo fatto resuscitare il Grande Torino. Si sentiva, si avvertiva, in città, un'atmosfera cupa, pesante.

Dicevano che Torino dopo la terribile sciagura di Superga aveva vissuto giorni di inguaribile rimpianto. Vero, ma mai di rassegnazione. Mai. Ed era questa voglia, questo dinamismo a darci la carica.

Il Torino voleva diventare grande, era scritto. Lo è diventato, superando un'avversaria, la Juve di Parola, forte, organizzata". "Giocavamo cosi". Radice si diverte a schizzare la formazione sul foglietto di carta. Ridisegna la porta ma non scrive Castellini. Perchè? "E' scontato.

 

Il nostro portiere era un giaguaro". E' vero che soffriva di ulcera? E' vero che la consideravano malattia professionale? Radice bofonchia: "Mah, io ricordo che prima delle partite accusava forti tensioni nervose. Sentiva la partita, il nostro giaguaro.

Ma non era il solo, più passava il tempo, più si facevano risultati, più si parlava di scudetto e la tensione aumentava".

Butta giù la difesa. "Caporale, dietro a fare il libero. Bravissimo. Veniva dal Bologna dove aveva, se non ricordo male, giocato molto poco. Con noi si è reinventato: una grande sorpresa. Tempista, tecnico, elegante. Mozzini stopper, forte, robusto, sereno.

Di lui dicevano: più che stopper te lo immagineresti dietro uno sportello bancario. Sempre sorridente, gran lavoratore. A destra Nello Santin, a sinistra Salvadori". Radice, battezzato poi anche Radix, spiega i terzini (adesso si direbbe uomini di fascia): "Santin era un marcatore per vocazione. Lo conoscevo bene dai tempi del Milan. Lui cominciava e io smettevo.

Ha fatto cose egregie anche con la Sampdoria e con noi è esploso. Salvadori veniva dalla C ed era maturato con il Toro. Sembrava, a prima vista, un pò fragile. Solo a prima vista. Si trattava invece di un giocatore completo: buona falcata, scatto, controllo intelligente dell' avversario. Una difesa bene assortita, al punto da sfiorare la perfezione". Ogni tanto una battutina in dialetto lombardo.

L'entusiasmo è lì, in agguato. Riaffiora, riemerge e poi diventa un fiume. Gigi Radice si fa cullare dal passato, sale sulla macchina del tempo e rivede quei giorni. La gente, i tifosi in città con i garofani all'occhiello, Torino una sola grande immensa bandiera.

Il giorno della festa, dopo l'uno a uno con il Cesena (gol di Paolo Pulici, autorete di Mozzini), i paracadutisti che scendono dal cielo, la corsa sull'anello della pista di atletica e il boato dei settantamila. "Indimenticabile", fa un sospiro profondo quello che poi avrebbero chiamato l'uomo dagli occhi di ghiaccio e il sergente di ferro. Radice ricorda quasi commosso: "Quel giorno correva anche Orfeo Pianelli. Correvamo tutti con il pugno chiuso.

Avevamo vinto, superato la Juve, il Milan, l'Inter. Vinto uno scudetto, e non solo.

Dentro quel tricolore c'era molto, molto di piu". Batte le mani sul tavolo come a scacciare la nostalgia. "Quanti anni, adesso siamo vecchi". Sem vecc, dice in dialetto milanese. Il centrocampo, Radice. "Tre, come adesso che giocano un calcio modernissimo.

Pecci al centro, Zaccarelli a sinistra e Patrizio Sala a destra. Zac era centrocampista dal dribbling rapido, volava e batteva con prepotenza. Centrocampista classico ma sapeva fare anche la mezza punta, marcare e impostare e anche altre cose.

Patrizio, che veniva dal Monza serie C, grandissimo altruista, sempre in aiuto. Di tutti, con naturalezza e semplicità, di una utilità estrema. Eraldo Pecci: centrocampista, regista, sapeva correre e impostare, piedi e cervello.

Indispensabile, come lo era Claudio Sala...". Alza la penna. "Ohei, non vorrei fare torti agli altri.

Erano tutti indispensabili". Però Claudio Sala, detto il Poeta... "Lo conoscevo dai tempi di Monza. Aveva fantasia, era astuto, sapeva lanciare, andare sul fondo e crossare. Sapeva fare tutto con disarmante semplicità: cioè quella del fuoriclasse. E gli altri due, Graziani e Pulici realizzavano, traducevano.

Graziani stava al centro, gran destro, gran sinistro, ottimo colpo di testa. Ma, soprattutto, tornava, dava una mano: il più moderno dei centravanti italiani.

Pulici? Eccezionale forza fisica, colpi improvvisi. Lo hanno chiamato Puliciclone. Giusto. Era un vero ciclone, partiva da sinistra attirato dalla rete e in rete andava: aveva il gol nel sangue e dici tutto". Luis Radice appoggia la schiena sulla poltrona e dice: "Tutto questo è forse riduttivo.

 

Quella squadra era una novità, ha cambiato un tipo di mentalità. Erano i tempi, e non sono passati poi secoli, in cui il calcio italiano non godeva di luminosa considerazione. Eravamo solo difensivisti e contropiedisti.

Va bene, per carità.

Il contropiede può essere micidiale, ma non puoi vivere di solo contropiede. Ma ve le ricordate certe figure delle nostre squadre all' estero?". Gigi si alza, liscia la coppoletta e dice: "Abbiamo parlato di quel Toro.

E' stato molto bello. Ho fatto tanto calcio e conosciuto uomini e discusso, qualche volta anche litigato. Ma sempre con entusiasmo".

 

La favola dell'altro grande Toro

L'impresa si compì nella stagione 1975-76, ma le sue radici affondano fino ai primi anni Sessanta, quando alla presidenza del club piemontese assurse Orfeo Pianelli, un uomo destinato a entrare nella leggenda, come tutti quelli che legano il proprio nome alle imprese del Toro ...

 

1968 - 1971: Giovani granata

Quella 1968-69 è la stagione dei sorprendenti trionfi della baby-Fiorentina di Bruno Pesaola: una vittoria del coraggio, della fantasia e dell'abilità contro l'arroganza dei fantastiliardi delle poche, solite grandi.

Il Toro non era poi così diverso dai viola, nell'organizzazione societaria, nella disponibilità economica e nell'attaccamento dei propri tifosi. Pianelli decise pertanto di imboccare la via già intrapresa dal collega Baglini, e inaugurò la stagione dei baby-granata.

Ma non si sarebbe trattato di uno sterile plagio: l'armata dei giovani lanciati in maglia Toro avrebbe confermato il proprio valore per anni, mentre la Fiorentina non sarebbe più stata in grado di riproporsi ad alti livelli, dopo la magica annata dello scudetto.

Fondamentale si rivelerà l'acquisto, nella stagione 1969-70, quella dell'incredibile Cagliari di Riva, del giovane Claudio Sala, colui che verrà ricordato dai tifosi come "il Poeta". Sulla panca granata si accomodò un allenatore rampante, Cadè, un tipo tranquillo e anticonformista per vocazione, che senza tanti giri di parole si presentò in questo modo: «Non posso anticipare se il Torino lotterà per la salvezza o per lo scudetto.

Cercheremo di giocare un buon calcio e di fare spettacolo: ma non poniamo limiti alla provvidenza».

Quanto ai tifosi, beh, nella salvezza ci credevano di sicuro, nello scudetto un po' meno. Alla fine fu un settimo posto, condito da un derby vinto e da uno straperso, ma la soddisfazione di una Juve buggerata dai sardi ripagò in parte lo smacco.

 

L'anno seguente fu acquistato il promettente Castellini, portiere in forza al Monza.

È fuori di dubbio che la dirigenza granata credesse ciecamente nel giovane, visto che ai brianzoli andarono in contropartita Pinotti, Mondonico, Facchinello e Giannotti. Cadè si dimostrò perplesso per le numerose cessioni, non controbilanciate da acquisti di sostanza: «Ringiovanire: sì, era doveroso farlo, ma non so davvero se, pur rinnovati, possiamo dirci più forti».

Scontato che un tipo così pacato, così lontano dai facili proclami estivi, fosse destinato a conoscere magre fortune nel nostro calcio.

Intanto Sala, che la stagione precedente aveva disputato trenta incontri, scalpitava, desideroso di esplodere definitivamente.

Il mister aveva le idee chiare, al riguardo: quel ragazzo, che pareva l'erede naturale del mai dimenticato Meroni, sarebbe stato il perfetto suggeritore per Bui e Pulici. Quest'ultimo era un giovane sbarcato alla corte granata nel 1967-68 rimasto lungamente dietro le quinte. Sulle sue qualità si nutrivano legittimi dubbi: 24 presenze nel 1969-70 e nessuna rete. Un bottino poco esaltante, per quello che doveva essere il terminale offensivo della squadra.

In più, dopo un fallimentare provino, Helenio Herrera aveva detto di lui: «Sarebbe meglio si dedicasse ai cento metri...». L'unico pronto a mettere la mano sul fuoco era invece proprio Cadè, deciso a rischiare il tutto per tutto pur di dimostrare le proprie teorie: "Più fantasia, più rischio, più coraggio, meno calcolo".

Alla fine, però, Paolino deluse nuovamente le attese e dovette accontentarsi di un gramo bottino di tre reti. Meglio di lui addirittura fece l'amico Sala, che di mestiere certo non faceva la punta. In totale, il Toro realizzò la miseria di ventisette gol.

Alla faccia del rischio: a quel punto sarebbe mancata solo una difesa allegra, per volare in Serie B. Eppure, nonostante la sterilità offensiva, quell'anno i granata conquistarono una Coppa Italia, ai rigori contro il Milan.

Incredibilmente, il buon Cadè fu silurato pochi giorni prima della finale. Bisogna dire che già da tempo si sapeva che il suo posto sarebbe stato preso da Gustavo Giagnoni, ma tanta premura parve ai più davvero eccessiva e ingiusta nei confronti di un tecnico serio e competente.

 

1971 - 1975: La corsa al vertice

L'avvio della stagione 1971-72 vide un Pianelli più battagliero del solito: «Pretendo che mangiate l'erba, che usciate dal campo a testa alta, con le maglie intrise di sudore. Non voglio più sentire nessuno lamentarsi, non voglio discussioni contro questo o quello.

Entrate in campo e fate il vostro dovere fino in fondo. E niente vittimismo se qualche volta le cose andranno storte».

C'era fermento, in casa granata: si capiva che il momento di godere dei frutti di quasi dieci anni di duro lavoro non potesse essere così lontano.

I ragazzi del vivaio stavano maturando e lo stesso Pulici sembrava ormai vicino alla zonaesplosione, nonostante le riserve espresse sul suo conto dal tecnico sardo: «Stia attento, Pulici, perché alle sue spalle può esserci un Bui». Fu un campionato incredibile: alla fine dell'andata il Toro si ritrovò settimo, staccato di sei lunghezze dalla Juve capolista. In più, nel primo derby della stagione, i granata le avevano prese.

Ma il bello doveva ancora venire: grazie a un prodigioso recupero, i ragazzi di Giagnoni si inserirono a sorpresa nel vivo della lotta per il titolo. Alla ventiseiesima, addirittura, fu portata a termine l'operazione sorpasso ai danni dei cugini zebrati.

 

I tifosi cominciarono a sognare, seppure col disincanto che da sempre distingue il supporter granata: finalmente una squadra col Toro sul petto onorava i caduti di Superga. Ma l'estenuante inseguimento aveva ormai sfiancato i ragazzi del "corsaro" Giagnoni. La domenica successiva ci fu il controsorpasso juventino, e da quel giorno le sorti del campionato sarebbero state saldamente in mano ai bianconeri.

Alla fine, il generoso Toro sarebbe stato secondo, in compagnia del Milan, a un solo punto dalla vetta. Occorre sottolineare che facevano già parte della formazione granata quattro elementi dell'undici che avrebbe conquistato il tricolore pochi anni più tardi: Castellini, Sala, Pulici e Lombardo. Sala, nonostante le frequenti difficoltà di collocazione in campo, era ormai un campione acclamato, un regista geniale dalla classe cristallina; Castellini si era rivelato un acquisto indovinato, Pulici era sempre tra coloro che sono attesi. Ma per Paolino era finalmente giunto il momento della consacrazione: Giagnoni, che tanto aveva lavorato per disciplinare tatticamente e tecnicamente quell'acerbo campione, lo inventò ala sinistra, da centravanti che era, scoprendo così la pietra filosofale.

Da quella stagione in poi, Pulici sarebbe stato noto alle difese di tutta Italia come "Puliciclone": diciassette centri, per lui, nel 1972-73, che gli valsero il titolo di capocannoniere in compagnia di Rivera e Savoldi. In più, l'esordio in azzurro.

Nonostante le prodezze del bomber tanto atteso, il campionato dei granata non fu all'altezza delle aspettative, e la zona-titolo non fu avvicinata neppure per sbaglio. I tifosi non si raccapezzavano: si favoleggiava di migliorare l'organico, di puntare alle zone nobili della classifica; poi l'acquisto-bomba per il 1973-74 fu un ragazzino di vent'anni, un tale Francesco Graziani attaccante, proveniente dall'Arezzo, Serie B.

 

In effetti, pensare di insidiare realmente Juve, Milan e compagnia bella con elementi del genere era eccessivo. Ma i dirigenti avevano visto nuovamente giusto: quel ragazzo venne preso sotto l'ala protettrice di Giagnoni e dei "vecchi" della squadra, come Ferrini, che ne intuirono subito le straordinarie qualità.

Il tecnico sardo, che si era reso conto delle potenzialità dei giovani, decise di non bruciarli, per cui evitò di gettarli nella mischia fin dalla prima giornata. E poi, Graziani andava tenuto d'occhio: fidanzato con una ragazza di Arezzo, aspettava solo una distrazione da parte dei cerberi granata per tagliare l'angolo; in più era un po' rotondetto, e anche la sua linea andava controllata.

I primi mesi sotto la guida del Corsaro furono traumatici, per quello che sarebbe presto diventato il Ciccio nazionale. Ma oggi Graziani ricorda Giagnoni con affetto e stima: fu lui a farlo esordire in campionato, contro la Sampdoria, nel novembre del 1973. Gli affidò la maglia numero 7 e, viste le lamentele del giovane, abituato al 9, sbottò: «Tu andrai in Nazionale e ci andrai con la maglia numero 7». Fatto che puntualmente si sarebbe avverato. Malauguratamente, le cose per il Toro si misero maluccio, e in seguito a un pesante tre a zero beccato a Milano dall'Inter, mister Colbacco fu sostituito da Edmondo Fabbri.

In più, al termine di un incontro precedente, il focoso Agroppi, che non perdeva occasione per far cagnara, era quasi venuto alle mani con un gruppo di tifosi, per cui si trovava nei guai con la commissione disciplinare.

Il povero Mondino si trovò quindi catapultato in una situazione bollente, il giorno dell'esordio sulla panchina granata contro la Sampdoria.

Ovviamente le cose potevano soltanto precipitare, a quel punto.

L'incontro si concluse uno a uno, ma i tifosi torinesi, scontenti dell'arbitraggio, a fine gara provocarono violentissimi incidenti con le forze dell'ordine, che costarono una giornata di squalifica al Comunale. Nella gravità del momento, però, i giocatori fecero quadrato, a riprova dell'attaccamento a quella gloriosa maglia.

Alla fine, nonostante le tribolazioni patite, il vecchio Toro trovò un onorevole quinto posto. Inoltre, il giovane Graziani aveva dimostrato di saperci fare: sei reti erano un bottino di tutto rispetto, per un esordiente.

Implacabile davanti ai portieri si confermava intanto Pulici, bomber principe dei granata con quattordici centri. Quello 1974-75 fu un campionato interlocutorio, che vide però affermarsi in prima squadra un altro giovane di valore, Zaccarelli, destinato a diventare una vera e propria bandiera.

Oltre a Pulici, anche il ragazzino prelevato dall'Arezzo confermò le buone impressioni suscitate la stagione precedente: alla fine furono trenta le reti per i "gemelli del gol". Grande merito ebbe Fabbri, che trovò la definitiva sistemazione a Claudio Sala: gli affidò la maglia numero 9, ma i suoi reali compiti furono di appoggio ai due arieti che, ispirati dal grande regista, esplosero fragorosamente.

Che la squadra fosse pronta per l'impresa, si capiva. Mancava solo qualche ritocco, magari anche un nuovo manico...

 

1975-76: Scudetto con il sergente di ferro

A sostituire il buon Mondino fu chiamato un tecnico emergente, un giovane che si era fatto una certa fama allenando il sorprendente Cesena, ma che veniva da un'avventura dai risvolti amari a Cagliari: Gigi Radice.

In Sardegna era riuscito nella miracolosa impresa di salvare una squadra ormai soltanto lontana parente di quella che aveva vinto il campionato pochi anni prima, ma il benservito riservatogli dalla dirigenza lo aveva scottato. Il tecnico lombardo si presentò nel capoluogo piemontese senza proclami, quasi in sordina.

L'obiettivo non dichiarato era il secondo posto, perché i cugini bianconeri apparivano, in tutta onestà, inavvicinabili. Radice, dopo una rapida occhiata all'organico, capì di avere una grande squadra per le mani.

Al presidente chiese soltanto due uomini: un difensore e un centrocampista. Detto fatto. Dal Bologna arrivarono il ruvido Caporale e l'imprevedibile Pecci. Come parziale contropartita agli emiliani fu ceduto Cereser, 13 anni di militanza Toro, una bandiera.

Ma la campagna cessioni non si arrestò, e coinvolse proprio i giocatori-simbolo, i più amati dai tifosi. Addirittura Ferrini, il grande capitano, ammainò il vessillo di una vita, dopo 16 anni dedicati alla causa granata, e lasciò il Toro proprio nella stagione della massima gloria.

Anche quel "maledetto toscano" di Agroppi se ne andò, dopo aver trascorso otto anni a Torino. Gli uomini chiesti da Radice si rivelarono i più indicati per fare grande una squadra da troppi anni in incubazione: Caporale, ferito dall'esperienza bolognese, era in cerca di rivincite, quindi motivatissimo; Pecci, superbo uomo di regia, matto come un cavallo, avrebbe permesso di dirottare il "poeta" Sala in altre zone del campo. A una delle prime sedute di allenamento, Eraldo, eterno guascone, si rivolse al tecnico con queste parole, fingendo di piagnucolare: «E se qualcuno mi marcherà, che cosa farò?». E il mister, che già si era guadagnato la fama di essere un duro: «Ad attaccare ci vai tu, così da aggredito diventi aggressore».

 

Questo concetto, apparentemente semplice, racchiudeva l'essenza del gioco propugnato dal "prussiano" Radice: un calcio moderno, che aveva come modello la grande Olanda di quegli anni, dell'immenso Cruijff e del calcio totale, antesignano del moderno pressing.

La stagione del Toro non iniziò nel migliore dei modi: subito fuori dalla Coppa Italia, sconfitti alla prima di campionato a Bologna. Ma i ragazzi di Radice non erano attanagliati dall'ansia di successi, e delle iniziali battute d'arresto non fecero un dramma.

La forza del Toro stava nello straordinario gruppo, in cui convivevano generosi gregari, come Patrizio Sala, Mozzini, Caporale, Santin e Gorin II, raffinati esteti come Claudio Sala e Pecci, un centrocampista d'assalto come Zaccarelli e implacabili cannonieri, come i "gemelli" Pulici e Graziani. In più, Castellini, un estremo difensore di grandi qualità. A fare da collante a questo incredibile collettivo, un allenatore coraggioso, con idee assolutamente innovative per il calcio italiano.

La rincorsa allo scudetto partì quindi alla seconda giornata: scontato che la squadra da raggiungere fosse proprio la Juve. Un titolo vinto su un avversario diverso avrebbe avuto meno gusto, d'altronde. Ma ci fu un momento in cui i bianconeri apparvero soltanto come un puntino all'orizzonte.

Cinque punti di distacco alla ventunesima giornata avrebbero scoraggiato anche i meglio intenzionati, ma non il Toro, forgiato a immagine e somiglianza dell'allenatore. I giocatori, poi, non si sottrassero mai alla pugna, fieri di indossare la maglia che era stata della squadra più forte di tutti i tempi. Pulici e Graziani, cosi uguali e così diversi, imperversarono per le difese avversarie, innescati dai geniali lanci provenienti dai piedi fatati di Sala e Pecci, nel tentativo di riuscire nella missione apparentemente impossibile di agguan-tare la zebra per la coda. "Puliciclone" meglio degli altri riuscì a incarnare lo spirito Toro; sanguigno, istintivo, non si dava mai per vinto: «Ogni pallone per me era una specie di guerra. Non conoscevo mezze misure e rifiutavo l'idea che si potesse giocare badando a mantenere il risultato». Ovvio che quel ragazzo fosse l'idolo della Maratona, la curva dei tifosi granata.

 

Alla ventiduesima partì finalmente l'inattesa riscossa del Toro: i bianconeri si concessero un grave passo falso a Cesena, proprio alla vigilia del derby, mentre il Torino stendeva la Roma. Sotto la Mole, la Vecchia Signora fece harakiri: due a uno per il Toro grazie alle autoreti di Cuccureddu e Damiani.

Quell'incontro sarebbe poi stato annullato dal giudice sportivo, che avrebbe assegnato il due a zero a tavolino per i ragazzi di Radice. Questo non cambiava comunque la sostanza dei fatti: nel giro di due giornate i granata si trovarono a sbuffare vapore sul collo dei cugini, ormai completamente in preda al panico.

Addirittura, già la domenica successiva ci fu il tanto sospirato sorpasso: la Juve cadde sotto i colpi dell'Inter, mentre Graziani e Garritano infilzavano il Milan.

E il Toro tenne la testa della classifica fino all'ultima giornata, conservando un esiguo punto di vantaggio, che non permetteva quindi calcoli di sorta, per la gara conclusiva col Cesena. A semplificare le cose provvidero i cugini bianconeri, che caddero a Perugia: un sofferto pareggio casalingo con gli ostici romagnoli fu sufficiente a consegnare all'armata di Radice il settimo, tanto atteso titolo.

Il pubblico non invase il campo, ma rimase ad applaudire compostamente gli eredi dei Più Grandi. Sugli spalti tanti piansero, quel giorno: 27 anni dopo Superga, sulle maglie granata era fiorito nuovamente il tricolore.

 

1976-77: la grande beffa e il declino

E dopo tante lacrime, tanto stupore e tanta gioia, il Toro si trovò nuovamente allineato agli altri concorrenti, ai nastri di partenza della stagione 1976-77.

Ripetere l'impresa, si sapeva, sarebbe stato quasi proibitivo. Eh sì, perché i granata non avrebbero più goduto del fattore-sorpresa, determinante nello spiazzare i rivali l'anno precedente. L'armata di Radice, però, nonostante non avesse mutato sostanzialmente fisionomia, si era ulteriormente rafforzata.

I ragazzi erano cresciuti insieme, si erano fatti uomini giocando l'uno al fianco dell'altro: l'undici del buon Gigi era in grado di scendere in campo e giocare con gli occhi bendati. E stendere chiunque senza tanti complimenti.

Eppure, quell'anno avrebbe riservato incredibili amarezze ai tifosi. Nel novembre 1976 si spense per ictus cerebrale, appena trentasettenne, il leggendario Giorgio Ferrini, meglio noto come il Capitano, eroe di mille battaglie, animatore e vera forza del gruppo fin dalla triste annata della prima Serie B.

Il Toro giocò alla grande fin dalla prima giornata, mettendo sotto praticamente qualunque avversario gli si parasse davanti: in breve, la conquista del titolo si rivelò una faccenda a due, da risolvere, come sempre, in un faccia a faccia chiarificatore con la Juve.

Il primo derby, all'ottava giornata, segnò il primo sorpasso sui cugini: due a zero per i granata, un delirio firmato Pulici-Graziani, un binomio sempre più affiatato e devastante. Quel giorno, forse, il Toro pensò a un facile bis. Pensò, forse, a una zebra già morta, lasciata ad arrancare nella polvere.

Ma la Juve, allenata da Trapattoni, si inchiodò alla schiena del Torino. Fu un furibondo testa a testa fino all'ultima giornata, fra sorpassi e controsorpassi. Alla fine, i granata avrebbero raggiunto la stratosferica quota di cinquanta punti, cinque più della stagione precedente, ma la Juve ne fece uno in più.

Delusione difficile da smaltire, da aggiungere alla cocente eliminazione in Coppa dei Campioni agli ottavi, per mano dei tedeschi del Borussia Mònchengladbach.

I granata si avviavano verso un nuovo, inarrestabile, lento declino

 

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Germano BOVOLENTA,  Giornalista professionista. Ha seguito per il suo giornale, oltre alla serie A (soprattutto Milan e Juventus), i più importanti avvenimenti calcistici italiani e internazionali degli ultimi 30 anni: 5 campionati del Mondo, 5 d’Europa con la Nazionale, 13 finali di Coppe dei Campioni, 5 finali Intercontinentali con le grandi squadre italiane. Una vita piena di numeri importanti. Germano Bovolenta, 64 anni, giornalista della Gazzetta dello Sport, il più grande e prestigioso quotidiano sportivo europeo, è nato a Porto Tolle

 


Data inserimento e aggiornamento nel sito: 14/05/2012 - 19/05/2017