Aveva molta paura di rifarsi male, di dover
sopportare di nuovo tutto quello che aveva sopportato da sola durante i lunghi mesi di infortunio ma
ciò che più la spaventava era la paura di non poter più giocare come aveva giocato fino ad allora,
aveva paura di doversi arrendere! D. aveva sofferto molto durante il suo stato di fermo e la
riabilitazione: lei adorava giocare, lo sport per lei era fonte di realizzazione personale, aveva
collezionato una lunga serie di successi sportivi e l'unico suo desiderio era quello di poter tornare ad
essere quella di prima.
Bisogna sottolineare il fatto che in casa avevano preso molto male la
questione dell'intervento e dello stato di fermo a letto durato ben 40 giorni; quando la vedevano
uscire per recarsi agli allenamenti la facevano sentire in difficoltà dicendole di non andare, che
prima o poi si sarebbe fatta di nuovo male e altre cose di questo genere.
Iniziammo così un lavoro di Mental Training incentrato sull'obiettivo a breve termine di ritornare ad allenarsi e giocare senza
timore.
I pensieri di D. durante gli allenamenti erano molto negativi, lei pensava continuamente che
avrebbe potuto farsi male, era terrorizzata all'idea di battere il ginocchio, non riusciva a concentrarsi
sulla traiettoria seguita dal pallone, né sui movimenti delle avversarie: non si confidava con nessuno,
i suoi genitori erano all'oscuro di tutto e lei riusciva a parlare dei suoi dubbi e dei suoi timori solo
con me.
La situazione peggiorò quando il ginocchio si gonfiò all'improvviso e il suo ortopedico le
disse che forse avrebbe dovuto operarsi di nuovo: lei sprofondò in uno stato di temporanea
depressione, fortunatamente ben presto superato grazie ai miglioramenti conseguiti durante un
secondo ciclo riabilitativo.
Cominciai a notare dei progressi dopo qualche settimana di lavoro: il
rilassamento le serviva molto per ritrovare calma e sicurezza, e ben presto il suo carattere deciso e
battagliero ebbe il sopravvento sui suoi timori.
Il momento decisivo avvenne quando il suo
allenatore e la sua squadra insistettero affinché lei tornasse a giocare in una partita importante: lei
non voleva giocare, era combattuta tra il desiderio di provare e la sua grande paura.
Io la incoraggiai
a scendere in campo, ero convinta che ce l'avrebbe fatta: sottolineai il fatto che non aveva niente da
perdere, che rimandare il momento della verità non serviva a nulla.
Il suo allenatore era convinto
che la sua forma fisica era adeguata, le terapie erano terminate da un po' di tempo, non sussistevano
dubbi sul suo stato di salute e l'intervento non era più in vista. D. si sentiva bene, aveva
ricominciato ad allenarsi, pur con molte perplessità, con determinazione e divertimento: gli unici
ostacoli erano quelli mentali.
Le dissi che avere timore alla vigilia del rientro vero e proprio è una
reazione normale, direi quasi "fisiologica": finchè non si ritorna a giocare l'immagine mentale di noi
stessi come atleti non subisce alcuna variazione, l'idea che abbiamo di noi rimane immutata,
cristallina, pressochè perfetta (ci pensa la memoria a rimuovere eventuali discrepanze o
imperfezioni legate al passato).
Ma chi subisce un infortunio è diverso da com'era prima, ha
un'esperienza alle spalle che, nel bene e nel male, lo ha reso più sensibile ma anche più completo
rispetto ad altri atleti, ha acquisito maggiore consapevolezza, ha gettato delle solide basi per
costruire una realtà sportiva autentica, a 360°; l'atleta sereno e soddisfatto, felice di poter giocare,
cade e si rialza, consapevole di essere in grado di farlo, consapevole che l'infortunio o il piccolo
incidente prima o poi arriva.
Immaginavo che lei sapesse intimamente che evitare, rimandare la
partita vera e propria ad un' altra volta serviva a procrastinare il momento della verità, del
confronto: aveva davanti a sè due possibili scelte, rimandare ancora nel tentativo di trovare delle
risposte, delle rassicurazioni alle sue domande o affrontare il terreno di gioco, e quindi anche il
fantasma dell'incidente.
La decisione spettava solo a lei, io potevo solo dirle che secondo me era
pronta, e questo lo capivo dai suoi sogni, dal fatto che si immaginava giocare, dalla voglia di
scendere in campo che traspariva dai suoi discorsi, dal fatto che mi raccontava che la sua
condizione fisica stava migliorando di settimana in settimana, dal fatto che secondo l'allenatore stava
rientrando in forma e soprattutto dall'entusiamo che metteva nel raccontare le sue sensazioni legate
all'attività sportiva.
Erano tutti segnali positivi, tutti particolari che dovevano indurla a pensare che
gli unici ostacoli che aveva di fronte erano quelli mentali, erano pensieri, dubbi, incertezze che
servivano solo a confonderla e ad allontanarla da quello che voleva veramente fare: giocare.
Doveva prendere la sua decisione con calma, una decisione che fosse solo sua e priva di
condizionamenti esterni: doveva ascoltare il suo corpo, ascoltare i suoi desideri e seguire l'istinto.
La mente ci può fuorviare, a volte ci raccontiamo da soli qualche bella storia costruita apposta per
affrontare una realtà che non accettiamo completamente, ma le emozioni, le sensazioni non
mentono.
E lei aveva tanta voglia di giocare, tanta voglia di essere "come prima".
In fondo lei aveva
le stesse probabilità di farsi male di tutte le sue compagne, di tutte le sue avversarie, aveva le stesse
probabilità di prima che accadesse l'infortunio, questa legge non era cambiata.
Le certezze di cui
disponeva derivavano dal suo bagaglio di esperienze, dalla sua forza, dai suoi desideri e dalla sua
caparbietà: bisognava far leva su tutto questo. D. decise di giocare e fece bene: la sua prestazione fu
non solo dignitosa, ma addirittura brillante, proprio come lei era in grado di fare.
Grazie al suo
ritorno in campo, e grazie ai preziosi incitamenti da parte dell'allenatore, D. iniziò ad elaborare e a
superare il suo infortunio.
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