Magazine | Maria Ilaria PASQUI | Tesi per Direttore Sportivo  F.I.G.C.

Tra dilettantismo formale e professionismo di fatto: le diseguaglianze nello sport

Introduzione
Lo sport -sia esso praticato a livello dilettantistico o professionistico- è un fenomeno che coinvolge uomini e donne. Esistono realtà di alto livello (si pensi ad esempio al tennis, al nuoto, alla pallavolo) in cui gli atleti, per l’impegno profuso ed il numero di ore dedicate all’attività sportiva, sono professionisti di fatto pur rimanendo dal punto di vista formale sportivi dilettanti.
Nel nostro ordinamento, infatti, la linea di confine tra dilettantismo e professionismo è rappresentata esclusivamente dalla legge 23 marzo 1981 n. 91 che indica quali sportivi sono considerati professionisti (gli atleti, gli allenatori, i direttori tecnicosportivi ed i preparatori atletici) e disciplina il rapporto di lavoro sportivo inquadrandolo, salvo poche eccezioni, come subordinato, perché svolto a titolo oneroso e con carattere di continuità.
Tuttavia, l’elemento davvero determinante ai fini della qualificazione dello sportivo come professionista o dilettante non è la prestazione resa (in termini di tempo, di onerosità, di modalità di svolgimento, di soggezione o meno al potere direttivo, organizzativo e disciplinare del datore di lavoro) bensì, la pratica di uno sport definito “professionistico” dalla Federazione sportiva di appartenenza. Come ovvio una tale distinzione, basata unicamente su una definizione formale, totalmente svincolata dall’analisi dell’attività svolta in concreto dallo sportivo, presta il fianco a numerose critiche e a non pochi problemi che verranno analizzati nella prima parte di questo elaborato. All’interno degli sport considerati dilettantistici, infatti, è possibile individuare i medesimi elementi caratterizzanti la prestazione degli sportivi professionisti (continuità, subordinazione alle direttive gerarchiche, orari di lavoro ben definiti, ripetitività nella prestazione etc.). In numerosi casi poi i dilettanti percepiscono somme (dalle proprie Società di appartenenza, dagli sponsor, come premi etc.) che sono veri e propri guadagni ma, in virtù del loro inquadramento giuridico, non godono di alcuna tutela. Il divario, in materia di tutele, diviene ancor più evidente se si parla di sport al femminile. Il campo delle attività sportive, infatti, è sempre stato segnato da profonde differenze di genere sia in termini di accesso alla pratica sportiva, sia con riferimento alla maggiore rilevanza economica, sociale e mediatica dello sport praticato dagli uomini, sia, infine, per quanto concerne il campo della tutela dei diritti e della rappresentanza femminile negli organi istituzionali nazionali e internazionali che amministrano lo sport. Nonostante il fenomeno sportivo sia una delle manifestazioni di massa che ha maggiormente caratterizzato il XX e questa prima parte del XXI secolo e che ha
comportato importanti campagne di sensibilizzazione per il pieno riconoscimento di un diritto allo sport per tutti, tale riconoscimento è purtroppo ancora lontano dal trovare piena esplicazione quando si affronta il tema dei diritti delle atlete. Nel parlare di sport al femminile è, pertanto, ancora oggi prioritario, rispetto all’approfondimento di singole tematiche giuridico-sportive, affrontare il tema del diritto allo sport. Secondo l’ultimo rapporto pubblicato dal Coni13, infatti, dall’analisi congiunta per fasce di età e di sesso si evince che le donne praticano sport meno degli uomini. Nel 2011 praticavano un’attività sportiva, in modo saltuario o continuativo, il 25,9% delle femmine rispetto al 38,6% dei maschi e la quota di praticanti era sistematicamente inferiore per le femmine di tutte le fasce di età e di tutti i livelli, sia agonistici che amatoriali.
Se si osserva l’ultimo decennio, la differenza di genere nell’accesso alla pratica sportiva può essere definita una caratteristica strutturale, anche se, analizzando i dati in termini assoluti, si evince che le donne che praticano un’attività sportiva sono in aumento.
Al predetto progressivo, seppur lento, accrescimento della partecipazione femminile alle attività sportive - che ha determinato importanti effetti sociali ed economici 14, oltre che un numero sempre maggiore di successi da parte delle nostre atlete nello sport di alto livello15 - tuttavia, non è corrisposta, nel nostro Paese, un’eguale
evoluzione migliorativa in termini di diritti e di riconoscimenti economici, mediatici e sociali. A tutt’oggi, infatti, in Italia nessuna disciplina sportiva femminile è qualificata come professionistica ai sensi della Legge 23 marzo 1981 n. 91 con conseguenti ricadute in termini di assenza di tutele sanitarie, assicurative, previdenziali, nonché, di trattamenti salariali adeguati all’effettiva attività svolta. I premi riconosciuti alle atlete, sia a livello nazionale che internazionale, vedono una riduzione che arriva sino al 50% per i campionati femminili rispetto a quelli maschili nell’ambito della stessa specialità. Quanto alla presenza di donne ai più alti livelli dirigenziali il dato più evidente a livello nazionale è che delle quarantacinque Federazioni Sportive Nazionali solo una, la FISE16, oggi commissariata, è stata presieduta da una donna. Infine lo sport femminile, nella sua interezza, ha una visibilità pubblica di gran lunga inferiore rispetto a quello maschile. Secondo uno studio comparativo17 condotto in Austria, Italia, Lituania, Norvegia e Islanda dal Centro islandese di eguaglianza di genere, le notizie sportive supportano la diffusione dei ruoli di genere tradizionali. [ read more ]

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