Tra dilettantismo formale e professionismo di fatto: le diseguaglianze nello sport
Introduzione
Lo sport -sia esso
praticato a livello
dilettantistico o
professionistico- è un
fenomeno che coinvolge
uomini e donne. Esistono
realtà di alto livello
(si pensi ad esempio al
tennis, al nuoto, alla
pallavolo) in cui gli
atleti, per l’impegno
profuso ed il numero di
ore dedicate
all’attività sportiva,
sono professionisti di
fatto pur rimanendo dal
punto di vista formale
sportivi dilettanti.
Nel nostro ordinamento,
infatti, la linea di
confine tra
dilettantismo e
professionismo è
rappresentata
esclusivamente dalla
legge 23 marzo 1981 n.
91 che indica quali
sportivi sono
considerati
professionisti (gli
atleti, gli allenatori,
i direttori
tecnicosportivi ed i
preparatori atletici) e
disciplina il rapporto
di lavoro sportivo
inquadrandolo, salvo
poche eccezioni, come
subordinato, perché
svolto a titolo oneroso
e con carattere di
continuità.
Tuttavia, l’elemento
davvero determinante ai
fini della
qualificazione dello
sportivo come
professionista o
dilettante non è la
prestazione resa (in
termini di tempo, di
onerosità, di modalità
di svolgimento, di
soggezione o meno al
potere direttivo,
organizzativo e
disciplinare del datore
di lavoro) bensì, la
pratica di uno sport
definito
“professionistico” dalla
Federazione sportiva di
appartenenza. Come ovvio
una tale distinzione,
basata unicamente su una
definizione formale,
totalmente svincolata
dall’analisi
dell’attività svolta in
concreto dallo sportivo,
presta il fianco a
numerose critiche e a
non pochi problemi che
verranno analizzati
nella prima parte di
questo elaborato.
All’interno degli sport
considerati
dilettantistici,
infatti, è possibile
individuare i medesimi
elementi caratterizzanti
la prestazione degli
sportivi professionisti
(continuità,
subordinazione alle
direttive gerarchiche,
orari di lavoro ben
definiti, ripetitività
nella prestazione etc.).
In numerosi casi poi i
dilettanti percepiscono
somme (dalle proprie
Società di appartenenza,
dagli sponsor, come
premi etc.) che sono
veri e propri guadagni
ma, in virtù del loro
inquadramento giuridico,
non godono di alcuna
tutela. Il divario, in
materia di tutele,
diviene ancor più
evidente se si parla di
sport al femminile. Il
campo delle attività
sportive, infatti, è
sempre stato segnato da
profonde differenze di
genere sia in termini di
accesso alla pratica
sportiva, sia con
riferimento alla
maggiore rilevanza
economica, sociale e
mediatica dello sport
praticato dagli uomini,
sia, infine, per quanto
concerne il campo della
tutela dei diritti e
della rappresentanza
femminile negli organi
istituzionali nazionali
e internazionali che
amministrano lo sport.
Nonostante il fenomeno
sportivo sia una delle
manifestazioni di massa
che ha maggiormente
caratterizzato il XX e
questa prima parte del
XXI secolo e che ha
comportato importanti
campagne di
sensibilizzazione per il
pieno riconoscimento di
un diritto allo sport
per tutti, tale
riconoscimento è
purtroppo ancora lontano
dal trovare piena
esplicazione quando si
affronta il tema dei
diritti delle atlete.
Nel parlare di sport al
femminile è, pertanto,
ancora oggi prioritario,
rispetto
all’approfondimento di
singole tematiche
giuridico-sportive,
affrontare il tema del
diritto allo sport.
Secondo l’ultimo
rapporto pubblicato dal
Coni13, infatti,
dall’analisi congiunta
per fasce di età e di
sesso si evince che le
donne praticano sport
meno degli uomini. Nel
2011 praticavano
un’attività sportiva, in
modo saltuario o
continuativo, il 25,9%
delle femmine rispetto
al 38,6% dei maschi e la
quota di praticanti era
sistematicamente
inferiore per le femmine
di tutte le fasce di età
e di tutti i livelli,
sia agonistici che
amatoriali.
Se si osserva l’ultimo
decennio, la differenza
di genere nell’accesso
alla pratica sportiva
può essere definita una
caratteristica
strutturale, anche se,
analizzando i dati in
termini assoluti, si
evince che le donne che
praticano un’attività
sportiva sono in
aumento.
Al predetto progressivo,
seppur lento,
accrescimento della
partecipazione femminile
alle attività sportive -
che ha determinato
importanti effetti
sociali ed economici 14,
oltre che un numero
sempre maggiore di
successi da parte delle
nostre atlete nello
sport di alto livello15
- tuttavia, non è
corrisposta, nel nostro
Paese, un’eguale
evoluzione migliorativa
in termini di diritti e
di riconoscimenti
economici, mediatici e
sociali. A tutt’oggi,
infatti, in Italia
nessuna disciplina
sportiva femminile è
qualificata come
professionistica ai
sensi della Legge 23
marzo 1981 n. 91 con
conseguenti ricadute in
termini di assenza di
tutele sanitarie,
assicurative,
previdenziali, nonché,
di trattamenti salariali
adeguati all’effettiva
attività svolta. I premi
riconosciuti alle
atlete, sia a livello
nazionale che
internazionale, vedono
una riduzione che arriva
sino al 50% per i
campionati femminili
rispetto a quelli
maschili nell’ambito
della stessa specialità.
Quanto alla presenza di
donne ai più alti
livelli dirigenziali il
dato più evidente a
livello nazionale è che
delle quarantacinque
Federazioni Sportive
Nazionali solo una, la
FISE16, oggi
commissariata, è stata
presieduta da una donna.
Infine lo sport
femminile, nella sua
interezza, ha una
visibilità pubblica di
gran lunga inferiore
rispetto a quello
maschile. Secondo uno
studio comparativo17
condotto in Austria,
Italia, Lituania,
Norvegia e Islanda dal
Centro islandese di
eguaglianza di genere,
le notizie sportive
supportano la diffusione
dei ruoli di genere
tradizionali.
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