La squadra venuta dal futuro
Anatomia della Dinamo Kiev di Lobanovskyi (1975 - 1986)
Libri di Calcio e Letteratura Sportiva
di Gianluca CORBANI
La corsa allo spazio
La corsa verso l’ultima frontiera della scienza inizia nell’ottobre 1957 con il lancio dello Sputnik.
Sparato in orbita dalla provincia kazaka dell’Unione Sovietica, il satellite icona del comunismo ingegneristico inaugura l’epoca delle esplorazioni spaziali e fissa, sopra i cieli di un mondo capitalista sbalordito, la superiorità tecnica, ideologica e militare dell’Urss.
Vista da Mosca l’impresa è soprattutto una questione politica e propagandistica, in realtà la conquista sovietica equivale ad una nuova, eccitante strada aperta per l’intera specie.
Da quel momento, ogni settore produttivo o artistico dell’economia globale viene sconvolto dal suo Sputnik, il fattore d’innesco verso l’innovazione più spinta.
E nella storia del calcio (perché sia chiaro: nelle pagine che seguono si parla di calcio), il momento che riflette la vertigine futurista dello Sputnik è senza dubbio il decennio degli anni Settanta.
L’epoca della sistematizzazione radicale della Zona e del Pressing, nella quale il vecchio gioco degli anni Sessanta - lento, compassato, giocato sul lungo e sui duelli individuali - cede progressivamente il testimone all’intensità elevata e alle posizioni fluide dello spettacolo che conosciamo oggi.
È una transizione irreversibile, la cui paternità viene attribuita convenzionalmente al pressing totale e alle rotazioni di ruolo dell’Ajax di Cruijff e dell’Arancia Meccanica del 1974.
C’è però un altro angolo di mondo, chiuso oltre la Cortina di Ferro, nel quale un nuovo calcio, più veloce, più fisico, che cerca lo spazio e abolisce l’individualismo, inizia a travolgere le vecchie consuetudini.
Parte I. La genesi del sistema
Il vento dell’Est inizia a soffiare con prepotenza sull’Occidente in una tiepida serata di maggio del 1975. A Basilea, la Dinamo Kiev di Valerij Lobanovskyi domina il Ferencvaros con un secco 3-0 e conquista la Coppa delle Coppe.
Risultato connotato da una forte valenza simbolica: per la prima volta una formazione dell’Unione Sovietica solleva un trofeo europeo. La partita in realtà è una demolizione scientifica, ma senza suoni e senza gioia.
La Dinamo trionfa in un contesto ovattato che risente delle divisioni della Guerra Fredda e che tanto ci avvicina allo spettacolo sterilizzato a porte chiuse dell’era Covid-19.
Entrambe le finaliste rappresentano infatti Paesi del blocco comunista (la Dinamo ucraino-sovietica, il Ferencvaros ungherese), gli spostamenti dei tifosi verso gli impianti dell’Ovest capitalista non sono consentiti e lo stadio di Basilea è un salotto semi-vuoto e silenzioso.
Sul campo, però, il calcio del futuro sgorga come una rivelazione lungo linee esatte e luminose, raggi laser intersecati a comporre un disegno più vasto.
Pur partendo da premesse concettualmente vicine, l’atteggiamento tattico dei soldati-operai di Lobanovskyi è qualcosa di mai visto. Non c’è traccia dell’ondeggiare creativo e maledetto del grande Ajax, di quel mescolarsi secondo una logica da autogestione anarchica, di quell’alternanza assoli/fraseggio da rock band psichedelica di Cruijff e Neeskens (che infatti saranno sempre tenacemente avversi a qualsiasi ricostruzione teorica del loro stesso gioco).
No, la Dinamo è un organismo più disciplinato e codificato, nel quale la posizione di forza assunta dalla tattica collettiva sul talento individuale è ormai diventata schiacciante.
Se fino a Rivera, fino a Best, fino a Pelé, la storia del calcio è stata soprattutto una sequenza di giocate di grandi fuoriclasse, ora la forza dell’insieme inizia a prevalere sulla poesia del genio.
Il modulo della Dinamo è il 4-1-3-2, spalmato sul campo secondo una numerazione già di per sé disorientante. Rudakov (1) tra i pali; la linea difensiva, schierata rigorosamente a zona, parte da destra con il laterale di spinta Troshkin (numero 6), prosegue con i centrali Fomenko (4) e Reshko (5) e si allarga sulla corsia sinistra con l’altro fluidificante Matvyenko (3). Appena davanti, Konkov (2) è il guardiano e l’equilibratore della mediana. Sulla trequarti, la batteria di interni offensivi composta da Muntyan (7), Kolotov (9) e Buryak (10) assiste la coppia di attaccanti larghi, Onyschenko (8) sulla destra e Blochin (11), la stella assoluta, che parte defilato a sinistra.
Tale struttura, insieme ai principi che la animano, è la conseguenza di una profonda, ed epocale, reinterpretazione del gioco su basi scientifiche. Lobanovskyi è un sovietico d’acciaio impregnato dagli slanci del suo tempo.
Ex giocatore ucraino fedele al regime, ha studiato Termoidraulica al Politecnico di Kiev e una volta tornato alla Dinamo come allenatore, nel ’73, ha aperto il suo laboratorio.
La scienza, i numeri, la tecnologia, diventano lo strumento per ridurre l’incidenza della casualità e degli episodi sul punteggio finale.
I giocatori, secondo Lobanovskyi, devono evolversi in unità polivalenti di un sistema (la partita) che si scompone in due sotto- sistemi da undici elementi (le squadre).
Il singolo non vince mai da solo, di conseguenza il sotto-sistema-squadra che prevale è quello in grado di produrre il surplus collettivo più elevato rispetto alla semplice somma dei singoli.
L’individualità ha senso solo se funzionale alle esigenze del sistema tattico. E soprattutto, se crede ciecamente nell’idea comune. Vecchi miti come l’epica del fuoriclasse pigro ma decisivo, compensato dai sacrifici del gregario, la mistica latina della grinta, del sudore e del cuore, la fatalità del ‘’gioco deciso dagli episodi’’ o indirizzato dalla fortuna, vengono spazzati via, palafitte divorate dall’avanzata inarrestabile delle forze della nuova tecnocrazia.
Trovando terreno fertile nella gelida e produttiva Kiev di inizio anni Settanta, polo dell’industria cibernetica sovietica, Lobanovskyi impone un approccio scientifico e sposta in avanti senza mezzi i termini i limiti della preparazione fisica. Integra lo staff con il fedelissimo assistente Anatolyi Zelentsov, un bioingegnere, e affida ad uno specialista, Mykhaylo Oshemkov, la raccolta dei dati statistici e atletici dei giocatori secondo una suddivisione del campo in 9 quadranti.
I carichi di lavoro settimanali vengono triplicati. I metodi di allenamento vengono pianificati sulla base di statistiche, modelli matematici e obiettivi tattici su più livelli.
Innanzitutto c’è un sistema superiore, che definisce l’identità collettiva con macro-principi di gioco inderogabili (zona, reparti corti, interscambi di posizione, occupazione dinamica degli spazi, ‘’azioni di coalizione’’ in velocità).
Il sistema si articola nelle funzioni tattiche individuali: 14 quelle per la fase difensiva e 13 per la fase offensiva, secondo una codificazione delle possibili situazioni di gioco che verrà riformulata anche da Bielsa.
E poi c’è la strategia specifica, da adattare di gara in gara, in relazione alle caratteristiche dell’avversario.
Contrariamente a quanto si potrebbe credere, Lobanovskyi non impone schemi fissi a prescindere.
Tantomeno è ostaggio di una visione ottusa e monolitica della tattica. L’idea di base, il sistema, i principi non cambiano. Ma l’approccio alla partita sì.
Più concretamente, la Dinamo per dna è una squadra dominante, che cerca il possesso per ordinarsi sul campo e aprirsi gli spazi per le penetrazioni coordinate di 3-4 elementi, e una volta persa la palla morde con cattiveria l’avversario attraverso un pressing feroce.
Ma
sono frequenti anche le circostanze nelle quali l’orchestra di
Lobanosvkyi, come una fisarmonica sinuosa e regolata allo
stesso tempo da movimenti meccanici, si ritira compatta nella
propria trequarti difensiva per poi uscire in massa dalla tana
e colpire in contropiede. Questa tensione tra collettivismo
totalitario intransigente e camaleontismo tattico si spiega
con la necessità, espressa più volte dall’allenatore, di
"ottenere sempre nuovi corsi d’azione che
non consentano all’avversario di adattarsi al nostro stile di
gioco".
Il controllo della palla (aspetto chiave per uscire dalle zone di densità avversaria e sul quale Lobanovskyi sviluppa un’ossessione estrema) insieme al pressing diventano quindi gli strumenti essenziali per "costringere l’avversario in una condizione nella quale commetterà degli sbagli, variando le dimensioni della zona di campo nella quale si gioca". Restringendo il campo quando l’avversario ha la palla e dilatandolo, per dialogare in profondità, una volta riconquistato il comando del gioco.
Nessuno, probabilmente nemmeno Michels, aveva mai ragionato sulla massimizzazione degli spazi di gioco con la stessa consapevolezza.
Del resto la tattica collettiva, per Lobanovskyi, è un’opera avanguardistica nella quale convivono posizioni rigide e posizioni liquide, tensioni totalitarie e tensioni eversive, e che riflette in fondo le due anime del progetto Dinamo Kiev.
Da una parte, nella propulsione rivoluzionaria continua come contro-mossa scacchistica da opporre al contro-gioco avversario, nel mantenimento di un dinamismo brulicante d’insieme - ma anche nel paradossale passato di Lobanovskyi come ala ribelle e anti-dogmatica insofferente ai dettami del maestro Victor Maslov - emerge l’attitudine trozkista verso la ‘’rivoluzione permanente’’.
Troppo sovversiva anche agli occhi della stessa burocrazia di partito sovietica, troppo a sinistra per la stessa sinistra, quella teorizzata da Trotsky è una rivoluzione in cui ogni fase contiene il seme di quella successiva, che richiede uno stato di continua guerra aperta contro le forze reazionarie, proprio come nel gioco della Dinamo, e che si arresta solo con la totale liquidazione della società divisa in classi.
E nel caso di Lobanovskyi, del calcio antico delle specializzazioni, delle marcature fisse a uomo, dei flussi di gioco statici. Allo stesso tempo, l’attitudine autoritaria del Colonnello si consolida nella richiesta di operai scelti e intercambiabili, che non pensino ma eseguano ordini, da inquadrare nella rigida gerarchia del collettivo.
Integrando così quel rapporto tra ordine e caos che è alla base di qualsiasi sistema complesso.
Il possente lavoro fondativo delle prime due stagioni al timone della Dinamo trova la sua prima espressione compiuta, a livello internazionale, nella finale di Basilea.
Nel primo tempo la squadra si compatta con le linee strette e la punta destra Onyschenko che ripiega profonda sulla fascia, componendo un 4-5-1 granitico, mentre Blochin (devastante negli spazi in ripartenza) resta più alto sulla sinistra in posizione di attacco preventivo.
Il centro del fronte offensivo non viene occupato staticamente, ma aggredito in corsa con i tagli diagonali delle punte, che partono in posizioni aperte per poi incrociarsi in velocità, accompagnate dagli inserimenti delle mezzali Muntyan, Kolotov e Buryak o le sovrapposizioni di 60-70 metri dei terzini.
La Dinamo difende in 10 e attacca in 8, ricreando la superiorità numerica sui due lati del campo attraverso transizioni fulminee e coordinate. Il Ferencvaros appartiene ad un livello inferiore e gli ucraini giocano al gatto col topo.
Onyschenko ipoteca il trofeo nei primi 45’ con una doppietta, nella ripresa la superiorità tecnica della squadra di Lobanovskyi diventa imbarazzante.
La Dinamo controlla il gioco variando ragnatele di scambi stretti e verticalizzazioni-flash perforanti.
E Blochin finisce gli ungheresi sfoderando una penetrazione degna del Ronaldo versione ’96-97: finge di rallentare sull’imbucata di Muntyan, manda fuori tempo il diretto avversario con un secondo tocco a seguire in accelerazione e poi salta anche il portiere, depositando a rete.
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Titolo: La squadra venuta dal futuro
Categoria: Libri di Calcio e Letteratura Sportiva
Pagine: 25 - Tipo file: PDF
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