Formazione Tecnica
Premessa
"Los
momentos de mi vida en los que yo he crecido tienen
que ver con los fracasos; los momentos de mi vida en
los que yo he empeorado, tienen que ver con el
éxito.
El
éxito es deformante, relaja, engaña, nos vuelve
peor, nos ayuda a enamorarnos excesivamente de
nosotros mismos; el fracaso es todo lo contrario, es
formativo, nos vuelve sólidos, nos acerca a las
convicciones, nos vuelve coherentes.
Si
bien competimos para ganar, y trabajo de lo que
trabajo porque quiero ganar cuanto compito, si no
distinguiera qué es lo realmente formativo y qué es
secundario, me estaría equivocando."
"I
momenti della mia vita nei quali sono cresciuto di
più sono collegati agli insuccessi; i momenti della
mia vita nei quali sono peggiorato sono collegati al
successo.
Il
successo è deformante, rilassa, inganna, ci rende
peggiori, ci aiuta ad innamorarci eccessivamente di
noi stessi; al contrario, l'insuccesso è formativo,
ci rende stabili, ci avvicina alle nostre
convinzioni, ci fa ritornare ad essere coerenti.
Sia
chiaro che competiamo per vincere, ed io faccio
questo lavoro perché voglio vincere quando competo
ma se non distinguessi quello che è realmente
formativo e quello che è secondario, commetterei
un errore enorme"
(Marcelo Bielsa)
Introduzione
si è reso necessario un
intervento urgente per riorganizzare l’attività
interessata dai provvedimenti e supportare il
lavoro delle Società in un periodo che richiede,
ancora una volta, grande senso di responsabilità
e capacità di fronteggiare una situazione in
continua evoluzione.
Nonostante le evidenti
difficoltà nell’adattarsi alle recenti
disposizioni per uno sport di contatto come il
calcio, a maggior ragione in ambito giovanile, è
importante non fermarsi per garantire il
proseguimento dell’attività sportiva a beneficio
di tantissimi giovani calciatori e giovani
calciatrici.
Le indicazioni metodologiche ed
organizzative contenute in questo documento
rappresentano un valido strumento per la
costruzione di allenamenti che tengano conto di
tutte le restrizioni in essere e restano valide
fin quando non interverranno ulteriori
provvedimenti a regolamentare il settore
sportivo per i quali sia richiesto un ulteriore
adeguamento delle attività.
Per fortuna (mia e di mia
moglie...) non mi capita spesso di fare sogni
"calcistici"; non li facevo nemmeno quando
giocavo, forse perchè la tensione della
competizione mi ha sempre preso fino al midollo:
eppure questa notte ho sognato che mi
esoneravano!
Preveggenza?
Sesto senso?
Era un'evenienza che in quel
momento davvero non mi aspettavo, nonostante il
mio sembrava essere l'esonero più annunciato di
tutti i campionati professionistici degli ultimi
20 anni; pagavo un inizio non proprio
brillantissimo (per usare un eufemismo!): le
prime 4 partite 4 sconfitte!
Il mio esordio da allenatore
professionista non era stato proprio così come
lo avevo sognato (per restare in tema onirico)
anche se, a dire il vero, la prima uscita
ufficiale in Coppa Italia prometteva bene:
avevamo battuto il Benevento al primo turno e,
in quello successivo, eravamo andati a vincere a
Bergamo eliminando l'Atalanta ...
Poi le 4 sconfitte consecutive
avevano fatto "crollare" le mie quotazioni -ma
non la mia fiducia nel mio lavoro e nella mia
squadra- e, così, erano iniziate le
"consultazioni" della società e del mio Ds alla
ricerca di un "degno" sostituto.
Pertanto, ogni settimana, un
paio di miei colleghi disoccupati erano dati già
per certi al mio posto. Nonostante ciò io
resistevo "aggrappato" alla mia panchina così
come un naufrago si aggrappa ad uno scoglio in
mezzo al mare e, tutto sommato, restavo sereno e
ottimista (il mio self-talk mi aiutava... dopo
vi spiegherò di cosa si tratta).
Ma voglio tornare al mio sogno
premonitore: mi hanno esonerato proprio quando
pensavo di aver risalito la china insieme alla
mia squadra; poco a poco, punto dopo punto,
eravamo riusciti a restare ancora "vivi": in
fondo ieri abbiamo perso al 93' e venivamo da 5
risultati utili consecutivi ... ma al risveglio
mi sono reso conto della triste realtà: mi hanno
esonerato davvero!
Non era un sogno: era la
realtà; vorrei dire ancora la triste realtà,
proprio un brusco e brutto risveglio.
E allora: perché mi hanno
esonerato?
Bisognerebbe chiederlo ai
dirigenti!! Io ancora non gliel’ho chiesto, né
tantomeno loro me l’hanno ancora detto...
Evidentemente non erano contenti del mio lavoro
e di come gestivo il gruppo.
Ma in questi mesi nel mio
nuovo, e non proprio piacevole, status di
"esonerato" mi sono fatto un'idea di tutto ciò
che è accaduto: se in un primo momento, ho
ritenuto unica responsabile del mio fallimento
la società, per il modo in cui ha costruito la
squadra e, soprattutto, per il modo in cui ha
gestito le situazioni, adesso, con maggiore
lucidità e distacco, vedo il mio esonero da una
prospettiva diversa, addirittura costruttiva, in
vista di una crescita personale e professionale.
E allora cambierei la domanda:
“Dove ho sbagliato?” È questo che devo chiedere
a me stesso, provando a darmi una (o più)
risposte.
Rapporto con la dirigenza?
Rapporto con lo staff (non era
il mio, era della società)?
Rapporto con la squadra?In
linea di massima sia sul campo che nella
gestione della squadra non mi rimprovero grandi
cose: ho gestito le sconfitte iniziali cercando
(e credo riuscendoci) di dare alla squadra
quotidianamente fiducia e autostima, provando a
mantenere stabile ed intatta la mia credibilità
nonostante dall'esterno arrivassero messaggi
contrastanti ...
Potevo fare di meglio?
Senza dubbio!
Potevo e dovevo fare meglio.
La prossima volta (se me ne
daranno la possibilità) farò meglio e
sicuramente non perderò le prime 4 partite! Ma
di una cosa sono certo: gli errori che ho
commesso fuori dal campo hanno condizionato
negativamente il mio lavoro sul campo.
Forse ad alcuni interlocutori
(e mi riferisco in particolare ai miei
dirigenti: Ds o Dt o Presidente che siano) ho
"comunicato" il "Pecchia allenatore" in maniera
sbagliata.
Non erano quelli i messaggi che
volevo inviare loro, li hanno recepiti in
maniera diversa da quanto era nelle mie
intenzioni.
Che fossero in buona fede
(alcuni) o in mala fede (altri...) l'errore è
stato mio! Un errore soprattutto di
comunicazione.
Ho sempre pensato (e adesso lo
penso più che mai) che allenare una squadra
fosse una cosa entusiasmante ma che, allo stesso
tempo, fosse un lavoro con innumerevoli
difficoltà, ricco di variabili impazzite.
Tante volte però, durante la
mia carriera da calciatore, ho ritenuto
(sbagliando) che il mio allenatore del momento
si stesse complicando da solo il proprio lavoro.
Ma adesso, dopo l'esperienza
vissuta in prima persona, posso affermare che,
forse, la solitudine del ruolo, i carichi di
tensione accumulati, gli svariati e differenti
interlocutori da fronteggiare, possono far venir
meno, in alcuni momenti della stagione, quella
necessaria lucidità nel prendere delle
decisioni: decisioni che invece, dall'esterno,
sembrano semplici e a volte, addirittura ovvie e
scontate.
CAPITOLO
1. TIPI DI COMUNICAZIONE
"La
creatività non fa a pugni con la disciplina"1 Johan
Cruijff
Nel corso degli
anni vissuti da calciatore professionista ho visto
molti compagni di squadra allenarsi in modo intenso,
continuo, caparbio e conseguire scarsi risultati; al
contrario, altri ragazzi con gli stessi allenamenti
(magari addirittura meno caparbi) conseguire dei
risultati strepitosi. Ho visto soggetti fisicamente
dotati ma mentalmente deboli o emotivamente fragili
non combinare assolutamente nulla e, al contrario,
individui in apparenza poco dotati raggiungere livelli
notevolissimi.
Quanti sono i
calciatori che partono benissimo e promettono
ottimamente da adolescenti per poi perdersi durante la
carriera e venir meno alle grandi aspettative riposte
in loro?
Da queste
considerazioni, derivate dalla semplice osservazione
della realtà, sia pure dalla prospettiva privilegiata
di chi come me ha fatto l'atleta professionista per
quasi vent'anni, nascono alcune domande:
- In che misura
le componenti psicologiche incidono sulla riuscita in
campo sportivo? - Sono le caratteristiche fisiche che
fanno di un atleta un futuro campione o quelle
psichiche, o un'armonica commistione di entrambe?
- Perché alcuni
atleti pur rimanendo nello stesso contesto (società,
squadra, città) rendono di più con alcuni allenatori
che con altri?
Dal mio punto di
vista attuale, ovvero da allenatore, quest’ultima
domanda è quella che mi ha spinto alla riflessione e
all’analisi oggetto di questa tesi: evidenziare quale
strumento straordinario sia la COMUNICAZIONE.
Per l'allenatore
è necessario conoscere i principi che la regolano,
perché deve essere consapevole che il rendimento di un
atleta dipende spesso dalla comunicazione verbale
(quanto e cosa gli viene detto) e da quella non
verbale (come ci si comporta nei suoi confronti).
Già l'etimologia
del termine comunicazione ci fa capire quanto essa sia
imprescindibile e, a mio parere, indissolubilmente
legata al ruolo stesso dell'allenatore; il verbo
comunicare, che nel suo significato latino vuol dire
"mettere in comune", ci riporta infatti ad un
condividere con gli altri pensieri,
opinioni,esperienze, sensazioni e sentimenti.
E cosa deve fare
un allenatore se non cercare di rendere una comunità
ovvero far diventare una squadra dei singoli atleti?
Quindi
l'allenatore è (e deve essere) innanzitutto un
comunicatore, inteso come colui che mette in comune,
fa condividere tanti singoli egoismi e li plasma in
una squadra! Ecco perché allora mi viene da dire che
allenare significa comunicare, dove per comunicazione
non s’intende semplicemente parlare, ma si presuppone
necessariamente una relazione e quindi uno scambio. La
comunicazione umana si distingue in:
1) comunicazione
sociale;
2) comunicazione
interpersonale.
La comunicazione
sociale, più nota come comunicazione di massa, viene
realizzata da una o da poche persone ed è rivolta a
molti (tv, stampa, radio, pubblicità). La
comunicazione interpersonale coinvolge due o più
persone e si basa sempre su una relazione in cui ci si
influenza reciprocamente, spesso senza rendersene
conto.
La comunicazione
interpersonale si suddivide a sua volta in:
a) comunicazione
verbale che avviene attraverso l'uso del linguaggio;
b) comunicazione
non verbale che avviene senza l'uso delle parole
attraverso vari canali: mimiche facciali, sguardi,
gesti, posture, andature, abbigliamento;
c) comunicazione
paraverbale che riguarda soprattutto tono, volume,
ritmo ma anche pause, risate, silenzio e altre
espressioni sonore come ad esempio schiarirsi la voce
e giocherellare con degli oggetti.
Paul Watzlawick
afferma che il primo assioma della comunicazione
stabilisce che è impossibile non comunicare. Il
processo della comunicazione consiste nell'abilità di
passare facilmente dal privato al pubblico e dal
pubblico al privato.
Chi parla, per
esempio, compie azioni mentali e conferisce loro
pubblicità, mentre chi ascolta sperimenta il processo
inverso: percepisce ciò che è pubblico e gli
conferisce significato passando così al privato.
Che i due privati
coincidano realizzando la c.d. “comunicazione
perfetta” è ovviamente un'illusione per il semplice
fatto che ognuno di noi darà sempre un'interpretazione
personale dettata dalla propria esperienza, dalla
propria cultura, dalla propria educazione, dal proprio
Io.
Per quanto
riguarda il nostro campo, ovvero quello dello sport
professionistico, solo recentemente, purtroppo, si è
capito che, oltre alla competenza sportiva,
l'allenatore deve conoscere le modalità di formazione
e valorizzazione dell'individuo e, di conseguenza,
saper gestire e valorizzare al meglio il gruppo.
A tale scopo è
quindi fondamentale saper informare (ed informarsi) e
saper comunicare; visto che l'uomo non può fare a meno
di comunicare tanto vale farlo bene. Ma non basta:
l’allenatore, oltre ad un’efficace comunicazione, deve
avere infatti anche una spiccata capacità di ascolto
che gli permetta di cogliere i feed-back che
quotidianamente la squadra gli lancia, sia per capire
in pieno ciò che gli sta comunicando sia soprattutto
per verificare se la sua comunicazione è stata
efficace.
Tornando alla mia
recente esperienza di allenatore posso dire, con il
senno del poi, che ho mancato in sensibilità quando il
giorno della rifinitura un mio giocatore ha avuto una
reazione sopra le righe ad una mia osservazione (il
suo sguardo, la sua mimica non erano quelli abituali).
Il giorno dopo in
gara ha commesso un errore clamoroso facendoci
prendere goal ed è stato protagonista di una
prestazione decisamente sottotono.
Purtroppo non ho
avuto tempo e modo di indagare successivamente perché
i dirigenti mi hanno esonerato proprio dopo quella
partita.
Probabilmente se
avessi prestato maggiore attenzione a quella reazione,
se fossi stato più sensibile e avessi indagato a fondo
prima della gara, avrei potuto capire ciò che il
giocatore in qualche modo mi stava comunicando; forse
era un suo disagio o una sua titubanza.
Certamente avrei
potuto comunicare con lui e soprattutto avrei potuto
ascoltare le sue parole, i suoi bisogni per aiutarlo a
preparare la gara con maggiore tranquillità.
Forse non avrebbe
commesso quell’errore e forse io non sarei stato
esonerato…ma quella è un’altra storia!
Avendo
evidenziato l’importanza della comunicazione è
necessario capire come attuarla; infatti, quando si
comunica, bisogna tener presente ciò che si vuole
comunicare e a chi e come lo si fa; ogni comunicazione
risulta efficace nel momento in cui convince qualcuno,
ma è anche vero che non c'è un modello di
comunicazione assoluto applicabile a tutti e uguale
per tutte le situazioni.
Saper parlare al
gruppo in ogni momento, facendo attenzione ai continui
mutamenti che la squadra vive e saper variare anche lo
stile comunicativo in relazione ai momenti della
stagione, rappresenta il presupposto essenziale per
mettere in pratica qualunque credo tattico.
Se una relazione
comunicativa (come quella allenatore-squadra) si basa
sul condiviso, quante più cose si conoscono
dell'interlocutore, tante più possibilità si avranno
di trovare le parole giuste per farsi capire.
Tuttavia tale
conoscenza non deve servire a cambiare la
comunicazione dell'allenatore al singolo giocatore o
alla squadra a discapito dell'autenticità ma solo ad
individuare il terreno su cui muoversi per stabilire
un punto di contatto.
L'utilizzo
dell'esplicito o dell'implicito nel linguaggio varia
secondo quanto condividono gli interlocutori: dove vi
sono familiarità, abitudini e cultura condivise
l'implicito può e deve trovare ampia applicazione.
Dove invece c'è
una relazione nuova, ancora nella fase iniziale, con
scarsa conoscenza reciproca, incertezza e quindi paura
di non essere capiti, è necessario l'esplicito.
Ogni errore può
essere fatale per un allenatore/comunicatore,
soprattutto nella fase iniziale del rapporto con la
squadra; adesso da buon “apprendista comunicatore”
devo passare dal "privato" al "pubblico" citando un
episodio della mia carriera che mi ha reso evidente
quanto fosse importante comunicare in maniera
corretta.
Ricordo ancora
perfettamente l'errore macroscopico di un mio ex
allenatore subentrato a stagione in corso: al suo
primo discorso alla squadra scelse una comunicazione
verbale e non verbale basata sull'implicito; corse un
rischio che si rivelò fatale.
Confrontando le
mie considerazioni (e sensazioni) con quelle dei miei
compagni si evidenziò una scarsa condivisione da parte
nostra: il nuovo Mister aveva sbagliato completamente
il canale comunicativo.
E così la sua fu
una partenza con handicap che compromise la sua
funzione di guida nei confronti del gruppo e la sua
avventura con noi fu breve: qualche mese dopo,
infatti, venne richiamato l'allenatore precedente.
Quando un
allenatore comunica efficacemente, accresce la sua
leadership, perché crea un ordine nella "testa"
dell'atleta; e quanto più la leadership aumenta tanto
più facile è guidare una squadra.
La comunicazione
è il mezzo principale che fa nascere un'emozione
piuttosto che un'altra.
Tutto dipende
dalle informazioni che mente o fisico inviano al
nostro cervello.
In base al tipo e
alla qualità delle informazioni, il nostro cervello
produce infatti alcune sostanze piuttosto che altre.
Spunti
interessanti al riguardo li offre la “Teoria Social -
cognitiva” dello psicologo canadese Albert Bandura
secondo cui la convinzione di autoefficacia, ovvero la
valutazione che la persona dà delle proprie capacità
di mettere in atto determinate azioni e quindi di
raggiungere determinati livelli di prestazione, è una
componente fondamentale nel funzionamento della
persona, sia in relazione al comportamento manifesto,
che alla vita psicologica interna.
Sembrerebbe che
le persone con un forte senso di autoefficacia siano
più inclini a immaginare eventi futuri positivi,
sperimentino un minor numero di emozioni stressanti e
siano più capaci di organizzare le complesse abilità
cognitive necessarie per far fronte ad ambienti
particolarmente impegnativi.
Tra i principi
cardine della comunicazione efficace vi è sicuramente
quello dell’"unicità della fonte" e nel nostro
microcosmo calcistico - in cui troppo spesso tutti si
arrogano il diritto/dovere di parlare anche di
argomenti di cui sono a digiuno- questo principio
diviene ancora più importante. La voce dell'allenatore
deve essere unica e tale deve rimanere.
Questo principio
viene spesso disatteso soprattutto in panchina dove,
tra incitamenti legittimi da parte dei compagni,
interventi di collaboratori o dirigenti, si rischia
con tali interferenze di inquinarla e depotenziarla.
Attentissimo
al rispetto di questo principio un mio allenatore,
prima di sedersi in panchina per seguire la gara,
quasi come in un rituale prestabilito, si rivolgeva a
tutti i presenti e nel suo classico slang romanesco
diceva: "Mo’ non voglio sentì più nessuno"
CAPITOLO
2. COMUNICAZIONE E MOTIVAZIONE
"Nino capì fin dal primo momento, l'allenatore sembrava
contento e allora mise il cuore dentro alle scarpe e
corse più veloce del vento." Francesco De Gregori
Comunicare è anche
motivare e viceversa ...
Un giorno, prima di
entrare in campo per l'allenamento, l'allenatore ci
chiese di rimanere nello spogliatoio; era un momento
delicato della stagione e la domenica avremmo dovuto
incontrare una squadra che lottava per lo scudetto.
Dopo qualche minuto
di attesa, tra battute e risate, da lontano ho sentito
zampettare un animale (ho pensato subito ad un cane,
forse perché ne ho la fobia).
Ed i miei timori
trovarono immediata conferma: il nostro allenatore era
entrato con un Rottweiler nello spogliatoio e, senza
profferire parola, lasciò che l'animale ringhiasse
(anche abbastanza arrabbiato!) per qualche attimo verso
di noi.
Il suo messaggio
era chiaro: la domenica avremmo dovuto avere lo stesso
atteggiamento del nostro ospite; scendemmo in campo e
iniziammo l'allenamento".
Se devo essere
sincero personalmente non la presi molto bene... più che
la "rabbia del cane" la situazione sottolineò la mia
"paura del cane", ed è per questo che io in ogni caso al
cane avrei preferito la mitica frase di V. Boskov: "Dai!
Dai! testa fredda cuore caldo!"
Nello sport le
motivazioni di un atleta possono fare la differenza fra
raggiungere o mancare gli obiettivi di performance
stabiliti. In psicologia esistono varie classificazioni
delle motivazioni; la distinzione classica tra
Motivazione Intrinseca e Motivazione Estrinseca mi
sembra molto appropriata per qualificare l’atteggiamento
mentale dell’atleta nell’esecuzione della prestazione
sportiva.
Un atleta con una
forte motivazione intrinseca gioca per il puro piacere
di farlo, il divertimento diventa il motore della sua
partecipazione agonistica e il senso della fatica appare
ridotto.
La motivazione
estrinseca invece caratterizza gli atleti che nello
sport cercano soprattutto riconoscimenti esterni,
attraverso rinforzi positivi o negativi (premi o
punizioni). Un'altra classificazione possibile sui tipi
di motivazioni riguarda il cosiddetto Orientamento al
Compito e Orientamento al Sé:
- un atleta
orientato al compito desidera confrontarsi con se stesso
e ricava piacere dall'apprendere nuove abilità,
constatando i suoi miglioramenti.
- un atleta
orientato al sé, al contrario, cerca di dimostrare la
propria capacità principalmente attraverso il confronto
con gli altri, si sentirà perciò realizzato solo quando
tale confronto gli sarà favorevole.
Sarà quindi
indifferente alla possibilità di migliorarsi, ma sarà
motivato dal desiderio di magnificare il proprio ego.
Alcune ricerche
hanno confermato una relazione positiva fra orientamento
al compito e motivazione intrinseca; soggetti con
entrambe queste caratteristiche sono definiti in
psicologia a “Controllo Interno”; si tratta di persone
che interpretano gli eventi come prodotto del proprio
comportamento.
Mentre quelli che
fanno dipendere gli eventi da altri fattori (fortuna,
fato ecc.) sono definite a “Controllo Esterno”.
Al di là di queste
classificazioni è indubbio che la comunicazione, sia con
se stesso che con gli altri, deve essere certa,
dettagliata e diretta.
La comunicazione
certa si ottiene utilizzando i verbi al modo imperativo;
quella dettagliata ha lo scopo di dare a noi stessi e
agli altri informazioni precise, dettagliate perché la
mente di ognuno di noi ha bisogno di elementi precisi
per poterli realizzare e quella diretta serve a
comunicare con immediatezza a noi stessi e agli altri
l’obiettivo perseguito, il desiderio da realizzare e si
ottiene utilizzando espressioni quali "Voglio questa
cosa": “E’ così! punto e basta”.
L' indecisione, il
dubbio, la paura di non farcela, l'incertezza e la poca
chiarezza sono i principali ostacoli per le nostre
performance. Infatti l'indecisione dei messaggi che
diamo a noi stessi e agli altri depotenzia la
possibilità di esprimerci e di fare esprimere gli altri
al meglio.
Solo grazie alla
mia determinazione potrò condizionare la determinazione
degli altri.
La determinazione e
la convinzione dell'allenatore si trasmette "quasi per
osmosi" ai suoi calciatori; a volte tale convinzione
(ovviamente orientata all'ottimismo) sembra rasentare la
pazzia ma è proprio quando "l'impossibile diventa
possibile" che nasce la forza per superare i nostri
limiti.
Per questo non
potrò mai dimenticare una straordinaria notte allo
Stadio S. Paolo di Napoli: ormai sono passati tanti anni
ma sento ancora il brivido della folla sulla mia pelle e
l'emozione di aver vissuto quel giorno una serata
speciale: "Era una partita in notturna contro la squadra
di Zeman; il primo tempo si concluse con noi sotto di
due reti e "soddisfatti" del risultato, il passivo,
infatti, poteva essere molto più pesante: avevamo preso
una "bambola" mai vista.
Nel lungo (che in
quel momento mi sembrava lunghissimo) sottopassaggio che
dal campo ci conduceva negli spogliatoi continuavo a
pensare alle numerose occasioni da gol degli avversari e
soprattutto mi facevo tante domande (self-talk): "come
facciamo ad arginare 'sta squadra?"; "il taglio
dell'esterno chi lo assorbe?"; "chi prende la mezzala
che si inserisce?"; "per quanto tempo dobbiamo correre
dietro a questi assatanati?".
Certamente nella
mia testa si erano create delle rappresentazioni
negative, ma sfido chiunque in un tourbillon del genere
a pensare positivo.
Nel frattempo ero
finalmente arrivato nello spogliatoio: mi sedetti
sconsolato al mio posto e guardai il resto della
squadra: teste basse e nessuno che provava ad aprire
bocca un po' per rabbia, un po' per delusione ma,
soprattutto, perché avevamo bisogno di recuperare fiato,
eravamo in apnea.
Dopo aver bevuto un
bicchiere di tè caldo entrò il mister e pensai: "ora ci
massacra" e invece, senza dare alcuna indicazione
tecnico/tattica, ci disse: "dai dai giovanotti, adesso
torniamo su e vinciamo 3 a 2!!" " Sicuro! Sicuro!".
Dire che aveva
sorpreso l'intero spogliatoio mi sembra riduttivo.
Eppure l'effetto su
tutti noi fu immediato e straordinario; già il viaggio
di ritorno verso il campo fu completamente diverso, quel
sottopassaggio che solo 15 minuti prima mi era sembrato
infinito adesso mi sembrava molto più corto, tanta era
la mia voglia di riprendere subito la partita.
Ma nella testa mi
frullava un solo pensiero: "il mio mister è un pazzo? o
un mago?"...
La gara iniziò in
maniera diversa: agevolati anche da un leggero calo di
tensione degli uomini di Zeman, accorciammo subito le
distanze.
Più passava il
tempo e più cresceva la convinzione di poter recuperare
la partita.
E anche dopo aver
pareggiato il nostro atteggiamento non cambiò, non
arretrammo di un metro, eppure dopo un primo tempo del
genere aver pareggiato quella partita poteva essere
considerato già un grande risultato; ma il mister ci
aveva detto che avremmo vinto 3 a 2 e quindi avanti con
coraggio a cercare la vittoria.
Il vento
evidentemente era cambiato, ma a dare forza alla nostra
spinta, oltre al calore di un San Paolo infuocato ed
entusiasta, c'era appunto la possibilità di
materializzare la "profezia" del nostro istrionico
tecnico.
Fu così che negli
ultimissimi minuti vincemmo quell’incredibile partita.
Proprio come aveva "previsto" il nostro
allenatore/comunicatore, quella notte, sicuramente,
anche un po' "Stregone".
L'Autore
-
Allenatore Professionista UEFA
PRO
Fonte
-
Il Settore Tecnico
della Federazione Italiana Giuoco
Calcio è organo di servizio della
Federazione incaricato, a norma
dell'art. 14 dello Statuto, di
svolgere attività di studio e di
qualificazione per la diffusione ed
il miglioramento della tecnica del
giuoco del calcio. A tal fine il
Settore ha competenza nei rapporti
internazionali per tutto quanto
concerne la definizione delle regole
del gioco e le tecniche di
formazione di atleti, e tecnici;
svolge attività di ricerca,
formazione e specializzazione in
tutti gli aspetti del gioco del
calcio e dei fenomeni sociali,
culturali, scientifici ed economici
ad esso connessi. Il Settore Tecnico
ha la propria sede operativa presso
il Centro Tecnico Federale della
FIGC di Coverciano (C.T.F.) e
sovrintende alla sua gestione
secondo le direttive del Consiglio
Federale.
Archivio
Proposte di Formazione Tecnica
-
Aggregatore di Contenuti
per Allenatori di Calcio
07024 -
La Maddalena (Olbia-Tempio)
Premessa
"Los momentos de mi vida en los que yo he crecido tienen que ver con los fracasos; los momentos de mi vida en los que yo he empeorado, tienen que ver con el éxito.
El éxito es deformante, relaja, engaña, nos vuelve peor, nos ayuda a enamorarnos excesivamente de nosotros mismos; el fracaso es todo lo contrario, es formativo, nos vuelve sólidos, nos acerca a las convicciones, nos vuelve coherentes.
Si bien competimos para ganar, y trabajo de lo que trabajo porque quiero ganar cuanto compito, si no distinguiera qué es lo realmente formativo y qué es secundario, me estaría equivocando."
"I momenti della mia vita nei quali sono cresciuto di più sono collegati agli insuccessi; i momenti della mia vita nei quali sono peggiorato sono collegati al successo.
Il successo è deformante, rilassa, inganna, ci rende peggiori, ci aiuta ad innamorarci eccessivamente di noi stessi; al contrario, l'insuccesso è formativo, ci rende stabili, ci avvicina alle nostre convinzioni, ci fa ritornare ad essere coerenti.
Sia chiaro che competiamo per vincere, ed io faccio questo lavoro perché voglio vincere quando competo ma se non distinguessi quello che è realmente formativo e quello che è secondario, commetterei un errore enorme" (Marcelo Bielsa)
Introduzione
si è reso necessario un intervento urgente per riorganizzare l’attività interessata dai provvedimenti e supportare il lavoro delle Società in un periodo che richiede, ancora una volta, grande senso di responsabilità e capacità di fronteggiare una situazione in continua evoluzione.
Nonostante le evidenti difficoltà nell’adattarsi alle recenti disposizioni per uno sport di contatto come il calcio, a maggior ragione in ambito giovanile, è importante non fermarsi per garantire il proseguimento dell’attività sportiva a beneficio di tantissimi giovani calciatori e giovani calciatrici.
Le indicazioni metodologiche ed organizzative contenute in questo documento rappresentano un valido strumento per la costruzione di allenamenti che tengano conto di tutte le restrizioni in essere e restano valide fin quando non interverranno ulteriori provvedimenti a regolamentare il settore sportivo per i quali sia richiesto un ulteriore adeguamento delle attività.
Per fortuna (mia e di mia moglie...) non mi capita spesso di fare sogni "calcistici"; non li facevo nemmeno quando giocavo, forse perchè la tensione della competizione mi ha sempre preso fino al midollo: eppure questa notte ho sognato che mi esoneravano!
Preveggenza?
Sesto senso?
Era un'evenienza che in quel momento davvero non mi aspettavo, nonostante il mio sembrava essere l'esonero più annunciato di tutti i campionati professionistici degli ultimi 20 anni; pagavo un inizio non proprio brillantissimo (per usare un eufemismo!): le prime 4 partite 4 sconfitte!
Il mio esordio da allenatore professionista non era stato proprio così come lo avevo sognato (per restare in tema onirico) anche se, a dire il vero, la prima uscita ufficiale in Coppa Italia prometteva bene: avevamo battuto il Benevento al primo turno e, in quello successivo, eravamo andati a vincere a Bergamo eliminando l'Atalanta ...
Poi le 4 sconfitte consecutive avevano fatto "crollare" le mie quotazioni -ma non la mia fiducia nel mio lavoro e nella mia squadra- e, così, erano iniziate le "consultazioni" della società e del mio Ds alla ricerca di un "degno" sostituto.
Pertanto, ogni settimana, un paio di miei colleghi disoccupati erano dati già per certi al mio posto. Nonostante ciò io resistevo "aggrappato" alla mia panchina così come un naufrago si aggrappa ad uno scoglio in mezzo al mare e, tutto sommato, restavo sereno e ottimista (il mio self-talk mi aiutava... dopo vi spiegherò di cosa si tratta).
Ma voglio tornare al mio sogno premonitore: mi hanno esonerato proprio quando pensavo di aver risalito la china insieme alla mia squadra; poco a poco, punto dopo punto, eravamo riusciti a restare ancora "vivi": in fondo ieri abbiamo perso al 93' e venivamo da 5 risultati utili consecutivi ... ma al risveglio mi sono reso conto della triste realtà: mi hanno esonerato davvero!
Non era un sogno: era la realtà; vorrei dire ancora la triste realtà, proprio un brusco e brutto risveglio.
E allora: perché mi hanno esonerato?
Bisognerebbe chiederlo ai dirigenti!! Io ancora non gliel’ho chiesto, né tantomeno loro me l’hanno ancora detto... Evidentemente non erano contenti del mio lavoro e di come gestivo il gruppo.
Ma in questi mesi nel mio nuovo, e non proprio piacevole, status di "esonerato" mi sono fatto un'idea di tutto ciò che è accaduto: se in un primo momento, ho ritenuto unica responsabile del mio fallimento la società, per il modo in cui ha costruito la squadra e, soprattutto, per il modo in cui ha gestito le situazioni, adesso, con maggiore lucidità e distacco, vedo il mio esonero da una prospettiva diversa, addirittura costruttiva, in vista di una crescita personale e professionale.
E allora cambierei la domanda: “Dove ho sbagliato?” È questo che devo chiedere a me stesso, provando a darmi una (o più) risposte.
Rapporto con la dirigenza?
Rapporto con lo staff (non era il mio, era della società)?
Rapporto con la squadra?In linea di massima sia sul campo che nella gestione della squadra non mi rimprovero grandi cose: ho gestito le sconfitte iniziali cercando (e credo riuscendoci) di dare alla squadra quotidianamente fiducia e autostima, provando a mantenere stabile ed intatta la mia credibilità nonostante dall'esterno arrivassero messaggi contrastanti ...
Potevo fare di meglio?
Senza dubbio!
Potevo e dovevo fare meglio.
La prossima volta (se me ne daranno la possibilità) farò meglio e sicuramente non perderò le prime 4 partite! Ma di una cosa sono certo: gli errori che ho commesso fuori dal campo hanno condizionato negativamente il mio lavoro sul campo.
Forse ad alcuni interlocutori (e mi riferisco in particolare ai miei dirigenti: Ds o Dt o Presidente che siano) ho "comunicato" il "Pecchia allenatore" in maniera sbagliata.
Non erano quelli i messaggi che volevo inviare loro, li hanno recepiti in maniera diversa da quanto era nelle mie intenzioni.
Che fossero in buona fede (alcuni) o in mala fede (altri...) l'errore è stato mio! Un errore soprattutto di comunicazione.
Ho sempre pensato (e adesso lo penso più che mai) che allenare una squadra fosse una cosa entusiasmante ma che, allo stesso tempo, fosse un lavoro con innumerevoli difficoltà, ricco di variabili impazzite.
Tante volte però, durante la mia carriera da calciatore, ho ritenuto (sbagliando) che il mio allenatore del momento si stesse complicando da solo il proprio lavoro.
Ma adesso, dopo l'esperienza vissuta in prima persona, posso affermare che, forse, la solitudine del ruolo, i carichi di tensione accumulati, gli svariati e differenti interlocutori da fronteggiare, possono far venir meno, in alcuni momenti della stagione, quella necessaria lucidità nel prendere delle decisioni: decisioni che invece, dall'esterno, sembrano semplici e a volte, addirittura ovvie e scontate.
CAPITOLO 1. TIPI DI COMUNICAZIONE
"La creatività non fa a pugni con la disciplina"1 Johan Cruijff
Nel corso degli anni vissuti da calciatore professionista ho visto molti compagni di squadra allenarsi in modo intenso, continuo, caparbio e conseguire scarsi risultati; al contrario, altri ragazzi con gli stessi allenamenti (magari addirittura meno caparbi) conseguire dei risultati strepitosi. Ho visto soggetti fisicamente dotati ma mentalmente deboli o emotivamente fragili non combinare assolutamente nulla e, al contrario, individui in apparenza poco dotati raggiungere livelli notevolissimi.
Quanti sono i calciatori che partono benissimo e promettono ottimamente da adolescenti per poi perdersi durante la carriera e venir meno alle grandi aspettative riposte in loro?
Da queste considerazioni, derivate dalla semplice osservazione della realtà, sia pure dalla prospettiva privilegiata di chi come me ha fatto l'atleta professionista per quasi vent'anni, nascono alcune domande:
- In che misura le componenti psicologiche incidono sulla riuscita in campo sportivo? - Sono le caratteristiche fisiche che fanno di un atleta un futuro campione o quelle psichiche, o un'armonica commistione di entrambe?
- Perché alcuni atleti pur rimanendo nello stesso contesto (società, squadra, città) rendono di più con alcuni allenatori che con altri?
Dal mio punto di vista attuale, ovvero da allenatore, quest’ultima domanda è quella che mi ha spinto alla riflessione e all’analisi oggetto di questa tesi: evidenziare quale strumento straordinario sia la COMUNICAZIONE.
Per l'allenatore è necessario conoscere i principi che la regolano, perché deve essere consapevole che il rendimento di un atleta dipende spesso dalla comunicazione verbale (quanto e cosa gli viene detto) e da quella non verbale (come ci si comporta nei suoi confronti).
Già l'etimologia del termine comunicazione ci fa capire quanto essa sia imprescindibile e, a mio parere, indissolubilmente legata al ruolo stesso dell'allenatore; il verbo comunicare, che nel suo significato latino vuol dire "mettere in comune", ci riporta infatti ad un condividere con gli altri pensieri, opinioni,esperienze, sensazioni e sentimenti.
E cosa deve fare un allenatore se non cercare di rendere una comunità ovvero far diventare una squadra dei singoli atleti?
Quindi l'allenatore è (e deve essere) innanzitutto un comunicatore, inteso come colui che mette in comune, fa condividere tanti singoli egoismi e li plasma in una squadra! Ecco perché allora mi viene da dire che allenare significa comunicare, dove per comunicazione non s’intende semplicemente parlare, ma si presuppone necessariamente una relazione e quindi uno scambio. La comunicazione umana si distingue in:
1) comunicazione sociale;
2) comunicazione interpersonale.
La comunicazione sociale, più nota come comunicazione di massa, viene realizzata da una o da poche persone ed è rivolta a molti (tv, stampa, radio, pubblicità). La comunicazione interpersonale coinvolge due o più persone e si basa sempre su una relazione in cui ci si influenza reciprocamente, spesso senza rendersene conto.
La comunicazione interpersonale si suddivide a sua volta in:
a) comunicazione verbale che avviene attraverso l'uso del linguaggio;
b) comunicazione non verbale che avviene senza l'uso delle parole attraverso vari canali: mimiche facciali, sguardi, gesti, posture, andature, abbigliamento;
c) comunicazione paraverbale che riguarda soprattutto tono, volume, ritmo ma anche pause, risate, silenzio e altre espressioni sonore come ad esempio schiarirsi la voce e giocherellare con degli oggetti.
Paul Watzlawick afferma che il primo assioma della comunicazione stabilisce che è impossibile non comunicare. Il processo della comunicazione consiste nell'abilità di passare facilmente dal privato al pubblico e dal pubblico al privato.
Chi parla, per esempio, compie azioni mentali e conferisce loro pubblicità, mentre chi ascolta sperimenta il processo inverso: percepisce ciò che è pubblico e gli conferisce significato passando così al privato.
Che i due privati coincidano realizzando la c.d. “comunicazione perfetta” è ovviamente un'illusione per il semplice fatto che ognuno di noi darà sempre un'interpretazione personale dettata dalla propria esperienza, dalla propria cultura, dalla propria educazione, dal proprio Io.
Per quanto riguarda il nostro campo, ovvero quello dello sport professionistico, solo recentemente, purtroppo, si è capito che, oltre alla competenza sportiva, l'allenatore deve conoscere le modalità di formazione e valorizzazione dell'individuo e, di conseguenza, saper gestire e valorizzare al meglio il gruppo.
A tale scopo è quindi fondamentale saper informare (ed informarsi) e saper comunicare; visto che l'uomo non può fare a meno di comunicare tanto vale farlo bene. Ma non basta: l’allenatore, oltre ad un’efficace comunicazione, deve avere infatti anche una spiccata capacità di ascolto che gli permetta di cogliere i feed-back che quotidianamente la squadra gli lancia, sia per capire in pieno ciò che gli sta comunicando sia soprattutto per verificare se la sua comunicazione è stata efficace.
Tornando alla mia recente esperienza di allenatore posso dire, con il senno del poi, che ho mancato in sensibilità quando il giorno della rifinitura un mio giocatore ha avuto una reazione sopra le righe ad una mia osservazione (il suo sguardo, la sua mimica non erano quelli abituali).
Il giorno dopo in gara ha commesso un errore clamoroso facendoci prendere goal ed è stato protagonista di una prestazione decisamente sottotono.
Purtroppo non ho avuto tempo e modo di indagare successivamente perché i dirigenti mi hanno esonerato proprio dopo quella partita.
Probabilmente se avessi prestato maggiore attenzione a quella reazione, se fossi stato più sensibile e avessi indagato a fondo prima della gara, avrei potuto capire ciò che il giocatore in qualche modo mi stava comunicando; forse era un suo disagio o una sua titubanza.
Certamente avrei potuto comunicare con lui e soprattutto avrei potuto ascoltare le sue parole, i suoi bisogni per aiutarlo a preparare la gara con maggiore tranquillità.
Forse non avrebbe commesso quell’errore e forse io non sarei stato esonerato…ma quella è un’altra storia!
Avendo evidenziato l’importanza della comunicazione è necessario capire come attuarla; infatti, quando si comunica, bisogna tener presente ciò che si vuole comunicare e a chi e come lo si fa; ogni comunicazione risulta efficace nel momento in cui convince qualcuno, ma è anche vero che non c'è un modello di comunicazione assoluto applicabile a tutti e uguale per tutte le situazioni.
Saper parlare al gruppo in ogni momento, facendo attenzione ai continui mutamenti che la squadra vive e saper variare anche lo stile comunicativo in relazione ai momenti della stagione, rappresenta il presupposto essenziale per mettere in pratica qualunque credo tattico.
Se una relazione comunicativa (come quella allenatore-squadra) si basa sul condiviso, quante più cose si conoscono dell'interlocutore, tante più possibilità si avranno di trovare le parole giuste per farsi capire.
Tuttavia tale conoscenza non deve servire a cambiare la comunicazione dell'allenatore al singolo giocatore o alla squadra a discapito dell'autenticità ma solo ad individuare il terreno su cui muoversi per stabilire un punto di contatto.
L'utilizzo dell'esplicito o dell'implicito nel linguaggio varia secondo quanto condividono gli interlocutori: dove vi sono familiarità, abitudini e cultura condivise l'implicito può e deve trovare ampia applicazione.
Dove invece c'è una relazione nuova, ancora nella fase iniziale, con scarsa conoscenza reciproca, incertezza e quindi paura di non essere capiti, è necessario l'esplicito.
Ogni errore può essere fatale per un allenatore/comunicatore, soprattutto nella fase iniziale del rapporto con la squadra; adesso da buon “apprendista comunicatore” devo passare dal "privato" al "pubblico" citando un episodio della mia carriera che mi ha reso evidente quanto fosse importante comunicare in maniera corretta.
Ricordo ancora perfettamente l'errore macroscopico di un mio ex allenatore subentrato a stagione in corso: al suo primo discorso alla squadra scelse una comunicazione verbale e non verbale basata sull'implicito; corse un rischio che si rivelò fatale.
Confrontando le mie considerazioni (e sensazioni) con quelle dei miei compagni si evidenziò una scarsa condivisione da parte nostra: il nuovo Mister aveva sbagliato completamente il canale comunicativo.
E così la sua fu una partenza con handicap che compromise la sua funzione di guida nei confronti del gruppo e la sua avventura con noi fu breve: qualche mese dopo, infatti, venne richiamato l'allenatore precedente.
Quando un allenatore comunica efficacemente, accresce la sua leadership, perché crea un ordine nella "testa" dell'atleta; e quanto più la leadership aumenta tanto più facile è guidare una squadra.
La comunicazione è il mezzo principale che fa nascere un'emozione piuttosto che un'altra.
Tutto dipende dalle informazioni che mente o fisico inviano al nostro cervello.
In base al tipo e alla qualità delle informazioni, il nostro cervello produce infatti alcune sostanze piuttosto che altre.
Spunti interessanti al riguardo li offre la “Teoria Social - cognitiva” dello psicologo canadese Albert Bandura secondo cui la convinzione di autoefficacia, ovvero la valutazione che la persona dà delle proprie capacità di mettere in atto determinate azioni e quindi di raggiungere determinati livelli di prestazione, è una componente fondamentale nel funzionamento della persona, sia in relazione al comportamento manifesto, che alla vita psicologica interna.
Sembrerebbe che le persone con un forte senso di autoefficacia siano più inclini a immaginare eventi futuri positivi, sperimentino un minor numero di emozioni stressanti e siano più capaci di organizzare le complesse abilità cognitive necessarie per far fronte ad ambienti particolarmente impegnativi.
Tra i principi cardine della comunicazione efficace vi è sicuramente quello dell’"unicità della fonte" e nel nostro microcosmo calcistico - in cui troppo spesso tutti si arrogano il diritto/dovere di parlare anche di argomenti di cui sono a digiuno- questo principio diviene ancora più importante. La voce dell'allenatore deve essere unica e tale deve rimanere.
Questo principio viene spesso disatteso soprattutto in panchina dove, tra incitamenti legittimi da parte dei compagni, interventi di collaboratori o dirigenti, si rischia con tali interferenze di inquinarla e depotenziarla.
Attentissimo al rispetto di questo principio un mio allenatore, prima di sedersi in panchina per seguire la gara, quasi come in un rituale prestabilito, si rivolgeva a tutti i presenti e nel suo classico slang romanesco diceva: "Mo’ non voglio sentì più nessuno"
CAPITOLO 2. COMUNICAZIONE E MOTIVAZIONE
"Nino capì fin dal primo momento, l'allenatore sembrava contento e allora mise il cuore dentro alle scarpe e corse più veloce del vento." Francesco De Gregori
Comunicare è anche motivare e viceversa ...
Un giorno, prima di entrare in campo per l'allenamento, l'allenatore ci chiese di rimanere nello spogliatoio; era un momento delicato della stagione e la domenica avremmo dovuto incontrare una squadra che lottava per lo scudetto.
Dopo qualche minuto di attesa, tra battute e risate, da lontano ho sentito zampettare un animale (ho pensato subito ad un cane, forse perché ne ho la fobia).
Ed i miei timori trovarono immediata conferma: il nostro allenatore era entrato con un Rottweiler nello spogliatoio e, senza profferire parola, lasciò che l'animale ringhiasse (anche abbastanza arrabbiato!) per qualche attimo verso di noi.
Il suo messaggio era chiaro: la domenica avremmo dovuto avere lo stesso atteggiamento del nostro ospite; scendemmo in campo e iniziammo l'allenamento".
Se devo essere sincero personalmente non la presi molto bene... più che la "rabbia del cane" la situazione sottolineò la mia "paura del cane", ed è per questo che io in ogni caso al cane avrei preferito la mitica frase di V. Boskov: "Dai! Dai! testa fredda cuore caldo!"
Nello sport le motivazioni di un atleta possono fare la differenza fra raggiungere o mancare gli obiettivi di performance stabiliti. In psicologia esistono varie classificazioni delle motivazioni; la distinzione classica tra Motivazione Intrinseca e Motivazione Estrinseca mi sembra molto appropriata per qualificare l’atteggiamento mentale dell’atleta nell’esecuzione della prestazione sportiva.
Un atleta con una forte motivazione intrinseca gioca per il puro piacere di farlo, il divertimento diventa il motore della sua partecipazione agonistica e il senso della fatica appare ridotto.
La motivazione estrinseca invece caratterizza gli atleti che nello sport cercano soprattutto riconoscimenti esterni, attraverso rinforzi positivi o negativi (premi o punizioni). Un'altra classificazione possibile sui tipi di motivazioni riguarda il cosiddetto Orientamento al Compito e Orientamento al Sé:
- un atleta orientato al compito desidera confrontarsi con se stesso e ricava piacere dall'apprendere nuove abilità, constatando i suoi miglioramenti.
- un atleta orientato al sé, al contrario, cerca di dimostrare la propria capacità principalmente attraverso il confronto con gli altri, si sentirà perciò realizzato solo quando tale confronto gli sarà favorevole.
Sarà quindi indifferente alla possibilità di migliorarsi, ma sarà motivato dal desiderio di magnificare il proprio ego.
Alcune ricerche hanno confermato una relazione positiva fra orientamento al compito e motivazione intrinseca; soggetti con entrambe queste caratteristiche sono definiti in psicologia a “Controllo Interno”; si tratta di persone che interpretano gli eventi come prodotto del proprio comportamento.
Mentre quelli che fanno dipendere gli eventi da altri fattori (fortuna, fato ecc.) sono definite a “Controllo Esterno”.
Al di là di queste classificazioni è indubbio che la comunicazione, sia con se stesso che con gli altri, deve essere certa, dettagliata e diretta.
La comunicazione certa si ottiene utilizzando i verbi al modo imperativo; quella dettagliata ha lo scopo di dare a noi stessi e agli altri informazioni precise, dettagliate perché la mente di ognuno di noi ha bisogno di elementi precisi per poterli realizzare e quella diretta serve a comunicare con immediatezza a noi stessi e agli altri l’obiettivo perseguito, il desiderio da realizzare e si ottiene utilizzando espressioni quali "Voglio questa cosa": “E’ così! punto e basta”.
L' indecisione, il dubbio, la paura di non farcela, l'incertezza e la poca chiarezza sono i principali ostacoli per le nostre performance. Infatti l'indecisione dei messaggi che diamo a noi stessi e agli altri depotenzia la possibilità di esprimerci e di fare esprimere gli altri al meglio.
Solo grazie alla mia determinazione potrò condizionare la determinazione degli altri.
La determinazione e la convinzione dell'allenatore si trasmette "quasi per osmosi" ai suoi calciatori; a volte tale convinzione (ovviamente orientata all'ottimismo) sembra rasentare la pazzia ma è proprio quando "l'impossibile diventa possibile" che nasce la forza per superare i nostri limiti.
Per questo non potrò mai dimenticare una straordinaria notte allo Stadio S. Paolo di Napoli: ormai sono passati tanti anni ma sento ancora il brivido della folla sulla mia pelle e l'emozione di aver vissuto quel giorno una serata speciale: "Era una partita in notturna contro la squadra di Zeman; il primo tempo si concluse con noi sotto di due reti e "soddisfatti" del risultato, il passivo, infatti, poteva essere molto più pesante: avevamo preso una "bambola" mai vista.
Nel lungo (che in quel momento mi sembrava lunghissimo) sottopassaggio che dal campo ci conduceva negli spogliatoi continuavo a pensare alle numerose occasioni da gol degli avversari e soprattutto mi facevo tante domande (self-talk): "come facciamo ad arginare 'sta squadra?"; "il taglio dell'esterno chi lo assorbe?"; "chi prende la mezzala che si inserisce?"; "per quanto tempo dobbiamo correre dietro a questi assatanati?".
Certamente nella mia testa si erano create delle rappresentazioni negative, ma sfido chiunque in un tourbillon del genere a pensare positivo.
Nel frattempo ero finalmente arrivato nello spogliatoio: mi sedetti sconsolato al mio posto e guardai il resto della squadra: teste basse e nessuno che provava ad aprire bocca un po' per rabbia, un po' per delusione ma, soprattutto, perché avevamo bisogno di recuperare fiato, eravamo in apnea.
Dopo aver bevuto un bicchiere di tè caldo entrò il mister e pensai: "ora ci massacra" e invece, senza dare alcuna indicazione tecnico/tattica, ci disse: "dai dai giovanotti, adesso torniamo su e vinciamo 3 a 2!!" " Sicuro! Sicuro!".
Dire che aveva sorpreso l'intero spogliatoio mi sembra riduttivo.
Eppure l'effetto su tutti noi fu immediato e straordinario; già il viaggio di ritorno verso il campo fu completamente diverso, quel sottopassaggio che solo 15 minuti prima mi era sembrato infinito adesso mi sembrava molto più corto, tanta era la mia voglia di riprendere subito la partita.
Ma nella testa mi frullava un solo pensiero: "il mio mister è un pazzo? o un mago?"...
La gara iniziò in maniera diversa: agevolati anche da un leggero calo di tensione degli uomini di Zeman, accorciammo subito le distanze.
Più passava il tempo e più cresceva la convinzione di poter recuperare la partita.
E anche dopo aver pareggiato il nostro atteggiamento non cambiò, non arretrammo di un metro, eppure dopo un primo tempo del genere aver pareggiato quella partita poteva essere considerato già un grande risultato; ma il mister ci aveva detto che avremmo vinto 3 a 2 e quindi avanti con coraggio a cercare la vittoria.
Il vento evidentemente era cambiato, ma a dare forza alla nostra spinta, oltre al calore di un San Paolo infuocato ed entusiasta, c'era appunto la possibilità di materializzare la "profezia" del nostro istrionico tecnico.
Fu così che negli ultimissimi minuti vincemmo quell’incredibile partita. Proprio come aveva "previsto" il nostro allenatore/comunicatore, quella notte, sicuramente, anche un po' "Stregone".
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