Il valore del pallone. Lo
strumento del mestiere nel cuore del gioco
Fonte: F.I.G.C. Settore Tecnico |
Autore: Thiago Motta |
Categoria: Formazione Tecnica |
Data inserimento: 10/10/2020 |
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Introduzione
Il rapporto con il pallone per me iniziò, come per quasi tutti i bambini, come "oggetto regalo”, in quanto regalo di compleanno offertomi da mio padre da ragazzino.
Fin da subito quindi, grazie proprio alla componente sentimentale, affettiva ed emotiva derivante dal gesto paterno in ambiente familiare, germogliò per me un legame simbiotico e naturale con il pallone.
Il pallone diventò l'oggetto più prezioso per il mio campo espressivo che era il gioco del calcio in casa, per strada, da solo o con gli amici, tra sogni di diventare un grande calciatore e la voglia di divertirsi e fare gol per battere l'avversario chiunque fosse.
Questo rapporto si consolidò anche quando cominciò ad essere sempre più frequente il passaggio dal gioco tipicamente ricreativo d'infanzia, alle prime esperienze più strutturate in società di calcio e calcetto.
Il pallone, in questa fase transitoria, tra infanzia e adolescenza, da semplice “oggetto” di gioco ricreativo diventava uno “strumento” di gioco di squadra, espressione di una forma più complessa di gioco collettivo.
Grazie al pallone, l'orizzonte del gioco si allargava dalla cerchia familiare e degli amici a quella della nuova famiglia, quella calcistica.
E il gioco, da espressione ricreativa si tramutava sempre più in espressione agonistica, come proiezione non solo di un'idea di movimento individuale e collettivo, ma anche come valorizzazione personale di appartenenza a un gruppo, una famiglia, di devoti del pallone.
Seppure acquisendo nozioni espressive sempre più accurate, legate anche alle differenti tipologie di pallone (calcio a undici e calcio a cinque), la componente emotiva era comunque presente.
Sia mantenendo l'affetto personale per l'”oggetto regalo” sia esprimendo l'affetto collettivo per lo “strumento” espressivo di squadra.
Il pallone in entrambi i casi – personale ricreativo o come strumento collettivo di squadra – si confermava come il bene più prezioso, il bene supremo del gioco.
Perderlo - durante una qualsiasi situazione di gioco - significava quindi inconsciamente non solo perdere l'oggetto dall'alto valore personale (– il regalo del papà -), ma anche lo strumento indispensabile per esprimere l'appartenenza al gruppo-squadra, alla famiglia squadra.
Perdere il pallone dunque diventava una sorta di “crimine” calcistico individuale e collettivo da riparare nel modo più deciso, sia per strada con gli amici facendo pesare il gioco personale, ma soprattutto in campo, in ambito agonistico, attraverso il gioco di squadra.
Con il mio trasferimento al Barcellona, in Spagna, tutti questi elementi fondatori vennero ampliati, approfonditi e perfezionati, rinforzando la consapevolezza della centralità del pallone e della sua gestione, singolarmente e collettivamente, come espressione del gioco del calcio.
Si trattava in ogni caso di un'evoluzione naturale, con il pallone inteso sia come “oggetto affettivo” che come “strumento collettivo”, ma con un approfondimento culturale finalizzato a migliorare le capacità di amministrazione del pallone nel corso delle fasi della partita, sia da un punto di vista personale (“il pallone è mio”) che collettivo (“il pallone è nostro”).
La percezione stessa della perdita del pallone non si rivelava più come un semplice “crimine” calcistico, ma anche come stimolo di riflessione non solo per elaborare la miglior strategia di conservazione, ma anche quella di prevenzione alla perdita, e naturalmente del recupero.
Insomma, il pallone e la sua gestione diventavano il fulcro di una filosofia personale e collettiva di interpretazione del gioco più strutturata, che di fatto pose anche le basi vincenti del futuro Barcellona in Liga e in Europa.
L'arrivo in Italia mi permise di arricchire, consolidandolo, il mio bagaglio tecnico e tattico, ma stavolta secondo differenti tipologie di filosofia calcistica.
E non necessariamente focalizzate sull'oggetto/strumento pallone, bensì sull'occupazione alternativa degli spazi e la conseguente disposizione in campo anche in funzione degli avversari e delle rispettive dottrine di espressione calcistica. La diversità culturale della Serie A, per la molteplicità dell'approccio o per contrasto delle nozioni a me care, ha permesso di alimentare ancor più la mia riflessione sulla centralità del pallone nell'espressione sia del gioco personale che collettivo, completando convinzioni e principi, anche nell'applicazione di fondamenti calcistici opposti.
Fondamenti che di fatto hanno esaltato, mettendoli alla prova, i meccanismi universali dell'approccio al gioco attraverso il prisma universale e naturale dell'oggetto/strumento pallone. In questo senso, la disparità intellettiva di “maestri” come Gianpiero Gasperini al Genoa e di José Mourinho all'Inter può riassumersi in un confronto di esperienze: nell'intervallo durante il derby di Milano del 29 agosto 2009; nella gestione della manovra d'attacco del club rossoblù.
Se entrambi i tecnici richiedevano il controllo del gioco attraverso la verticalizzazione della manovra, il metodo per ottenerlo era diametralmente opposto.
Mourinho all'Inter prediligeva la verticalizzazione tra le linee, come mi fu evidente alla fine del primo tempo del derby di andata del 2009. Dopo i primi 45' eravamo in vantaggio per 3-0 sul Milan. Uno scarto ottenuto con criteri di gioco e gestione della palla molto prossimi a ciò che sentivo a me più consono.
Nel tunnel all'uscita dagli spogliatoi Mourinho mi intimò però di giocare il resto della gara Focalizzandomi non più sul controllo, ma sul disimpegno e sulle aperture verticali, dietro le linee difensive rossonere. Nel secondo tempo segnammo solo un gol in più, per il definitivo 4-0, ma quell'anno vincemmo comunque il Triplete.
Al Genoa, Gasperini richiedeva una gestione più elaborata della verticalizzazione. Non solo tramite passaggi diretti tra le linee, ma privilegiando una struttura organizzata di passaggi.
Spesso, mi capitava nel mio ruolo di regista, di servire il numero 9, Milito, in modo diretto, per verticalizzazione diretta. Per Gasperini serviva invece verticalizzare sfruttando l'intermediazione dei giocatori sulla trequarti.
In tal sistema, la manovra non solo si sviluppava in modo verticale, ma permetteva anche a me di parteciparvi in modo proattivo, potendomi presentare nel settore dell'area avversaria e quindi moltiplicare le risorse per andare in gol.
Con un gioco di passaggi verticali diretti all'attaccante - mi fece invece notare un giorno Gasperini - , potevo magari mettere in condizione di tiro Milito, ma mi escludevo automaticamente dall'azione e di conseguenza riducevo le alternative creative di squadra per arrivare al gol.
In Francia, infine, il percorso formativo e intellettivo del concetto di gioco espresso attraverso la centralità del pallone, è passato da valore teorico a espressione pratica e pedagogica.
E non solo nel Psg di Carlo Ancelotti, ma in particolare in quello a gestione di Laurent Blanc, attraverso un dominio schiacciante in un campionato dai precetti tecnico e tattici in generale agli antipodi rispetto a tale approccio.
Contrasto che non ha fatto che esaltare la superiorità di una filosofia applicata in un primo tempo da giocatore in campo, traducendo l'esperienza di sintesi di gestione individuale a servizio del collettivo del pallone, in termini tecnici e tattici; e successivamente come allenatore dell'Under 19 del Psg, nella funzione di trasmissione ai giovani di tali principi fondatori, per una visione globale e stratificata del calcio, ma basata sull'elemento primordiale e naturale del calcio: il pallone.
Da qui, la proposta di questa tesi di affidare una lettura del calcio attraverso la centralità del pallone inteso come “oggetto affettivo/strumento di lavoro”, anche nella sua accezione psicologica (Prima Parte), intesa come padronanza di squadra e individuale da coltivare attraverso esercizi tecnici specifici, per garantire quindi la più ampia scelta di costruzione ed evoluzione del gioco collettivo e personale, illustrata con un caso pratico di azione dove rientrino i diversi aspetti qui affrontati (Seconda parte)
Analisi psicologica
Durante la mia carriera di calciatore ho spesso osservato come compagni di squadra si autolimitassero durante allenamenti e partite, da un punto di vista tecnico, provocando una riduzione del campo di applicazione tattico della squadra, oltre che individuale.
Il calcio di alto livello è uno sport in cui la responsabilità della prestazione è condivisa, ma dove predominante è pure l'elemento tecnico dei singoli che si identifica nella capacità del controllo e della gestione del pallone.
Il pallone si può definire come uno strumento di lavoro ma attraverso il quale si esprimono le capacità di ciascun membro della squadra, ossia del gruppo di lavoro unito dal principale obiettivo del fare gol, e per esteso, della vittoria.
Un obiettivo che può essere raggiunto attraverso una varietà di approcci e schemi e interpretazioni del gioco, in base alle caratteristiche dei giocatori, degli avversari e delle strategie messe in campo; ma che parte comunque dall'elemento di base: ovvero il tocco del pallone che ha una valenza primordiale da un punto di vista tecnico, con le sue implicazioni sull'azione di gioco, da un punto di vista mentale in quanto strumento di realizzazione delle diverse tappe psicologiche che contribuiscono alla formazione globale dell'individuo, ma anche affettive/emotive che risalgono – come accennato nell'introduzione – alla valenza embrionale dell'oggetto pallone.
Da qui l'importanza della padronanza dello strumento di lavoro del calciatore, ossia il pallone che nella sua peculiarità centrale del gioco del calcio diventa anche il filo conduttore di una serie di riflessioni sull'approccio mentale del singolo e le conseguenze pratiche sul risultato e sull'espressione della squadra, intesa come complesso di personalità che possono o meno entrare in sintonia per il raggiungimento dell'obiettivo comune.
LA PERSONALITA'
Tornando alla osservazione, in carriera, di quei compagni che si limitavano nell'esprimere le proprie competenze di padronanza tecnica, emerge dunque l'importanza del controllo della competenza professionale che comporta la traslazione della definizione del pallone da strumento di lavoro a strumento per la realizzazione della personalità del singolo giocatore e, di conseguenza, di quella della squadra cui appartiene.
Il pallone da semplice oggetto di gioco/lavoro, diventa in questo modo uno strumento di miglioramento delle capacità psicologico-mentali per affrontare le sfide, gli obiettivi e le difficoltà che derivano dal suo utilizzo professionale, ma che portano benefici collettivi rilevanti, secondo un ciclo virtuoso che permette al singolo di realizzarsi e di contribuire – secondo i propri mezzi coltivati e migliorati – al raggiungimento dell'appagamento di squadra.
E' necessario quindi definire innanzitutto la personalità del singolo giocatore/individuo, plasmata dalla predisposizione genetica e dalle prime e fondamentali esperienze infantili, in uno specifico ambiente sociale e culturale dove ha potuto esprimersi.
Una definizione che si lega alla fondamentale evoluzione del rapporto con il pallone che rimanda – come ricordato nell'introduzione – fino al periodo dell'infanzia del giocatore stesso nel suo rapporto emotivo e affettivo con l'oggetto pallone.
D'altronde, secondo alcuni studi sostenuti in ambito giovanile, fino agli 11 anni la dimensione affiliativa del fare sport con gli amici, di incontrarne di nuovi e potersi divertire rimane predominante per poi allargarsi alla ricerca dell'eccitazione della competizione e dell'entusiasmo che ne deriva fino ai 14 anni; per infine sviluppare e mantenere non solo un'adeguata forma fisica, ma anche e soprattutto una competenza sportiva che permetta di imporsi, di fare la differenza da singolo nel collettivo, e contribuire così al raggiungimento dell'obbiettivo condiviso all'interno del gruppo/famiglia che rappresenta la squadra.
Di conseguenza, senza inoltrarsi nei meandri freudiani della definizione e dello sviluppo della personalità, è necessario però recepire il concetto di pulsione come spinta endogena verso l'esterno, caratterizzata da un'origine, una meta e quindi un oggetto.
La personalità, secondo per esempio il filosofo Umberto Galimberti, rappresenta l'insieme delle caratteristiche psichiche e delle modalità di comportamento dell'individuo che nella Loro integrazione ne costituiscono il nucleo irriducibile, anche nella molteplicità e diversità delle situazioni ambientali in cui si esprime e si trova ad operare.
La personalità permette quindi di integrare e organizzare elementi fisici e psichici, per Facilitare l'adattamento dell'individuo all'ambiente.
L'individuo/calciatore si trova di fatto ad agire in un contesto complesso, ad esprimersi su più livelli, dal momento dell'allenamento al continuum della partita, in un luogo specifico, - lo stadio -, esposto alla pressione di migliaia di tifosi e a quella mediatica, sia in maniera puntuale (la partita), sia quotidiana attraverso giornali, trasmissioni tv e non da ultimo i social network.
L'importanza quindi di esprimere con serenità le proprie competenze diventa fondamentale non solo per l'espressione diretta dell'individuo calciatore, ma anche per il suo relazionarsi all'interno del gruppo di lavoro/famiglia/squadra e con il contesto ambientale esterno.
Ognuno di questi livelli di espressione presenta difficoltà potenziali che vanno a contribuire all'inibizione del giocatore stesso, attraverso un uso limitato o condizionato del pallone inteso – di nuovo – non solo come strumento di base del lavoro, ma come molteplice rivelatore del potenziale psicologico-mentale su cui intervenire, per facilitare in fine la creazione di uno spirito di squadra virtuoso, che permetta di raggiungere gli obiettivi prefissati.
LO STRESS
Il raggiungimento di un obiettivo deve essere approcciato come una sfida avvincente, accompagnata inevitabilmente da una dose di stress inteso però come elemento vitale nel meccanismo di adattamento e di sopravvivenza dell'individuo.
Lo stress e la sua gestione diventano così un primo indicatore della personalità dell'individuo/calciatore e della sua capacità di mantenerlo entro un limite di sopportabilità tale da non interferire con i processi decisionali, emotivi, cognitivi e comportamentali.
Il primo elemento di stress deriva nel giocatore di calcio proprio dalla capacità di manifestare una padronanza del pallone attraverso il quale aspira a integrarsi in una squadra, ritagliandosi uno spazio relazionale tecnico con i compagni, con l'intento primordiale di potersi non solo esprimere, ma anche sperimentarsi in una fase di creatività del gioco, commettendo magari errori che non siano oggetto di critiche eccessive, e comunque sempre nell'intento di completare il percorso che porta all'obiettivo della vittoria.
In questo contesto, lo stress legato alla mancata padronanza tecnica del pallone e della sua gestione, deriva da una sensazione di limite percepita come minacciosa, a causa di una richiesta dell'ambiente e catalogata come eccessiva rispetto alla percezione delle proprie capacità per fronteggiarla.
Il meccanismo in termini pratici si rivela per esempio nell'impressione dell'isolamento di un giocatore sia nella fase di lavoro in allenamento, sia – con conseguenze più nefaste – in partita.
Non solo attraverso il mancato coinvolgimento da parte della squadra del giocatore/individuo che non esprime con personalità delle competenze adeguate al lavoro del gruppo, e alla sua finalità di vittoria; ma anche nell'atto di “nascondersi”, negando disponibilità al compagno in zone del campo e fasi di gioco generanti maggiori situazioni di difficoltà e quindi di stress.
In questo senso appare interessante uno scambio di battute, durante una trasmissione sui social, dell'ex campione Didier Drogba sulla sua esperienza a Chelsea dove si trovò confrontato a compagni di squadra tecnicamente meno dotati e per questo – nel suo aneddoto – considerati inferiori ma soprattutto inaffidabili, oltre che oggetto di scherno in modo velato in presenza del compagno, ma diretto e più feroce nelle chat di minigruppi di colleghi.
Riprendendo quindi il bisogno di individuare la soluzione al problema, ne va considerato l'ambivalenza se si prende in considerazione per esempio la teoria del sociologo Aaron Antonovsky che rilevò come agli eventi stressanti si oppongono da un lato risorse caratteristiche della personalità, e dall'altro quelle specifiche ambientali come la rete di relazioni sociali di supporto.
Per esteso, dunque, i legami con i compagni diretti di squadra con cui si affrontano i momenti di difficoltà.
LA GESTIONE DELLO STRESS
Tornando alla capacità indispensabile di gestire lo stress, indotto da stimolo interiore ed esterno, è necessario rinforzare i principi del coping e di resilienza.
Il primo, il coping, è considerato in psicologia come un processo che mette fortemente alla prova le risorse dell'individuo, attraverso azioni e emozioni connesse per essenzialmente ridurre il rischio delle conseguenze dannose che potrebbero risultare da un evento stressante, e contenere le reazioni emozionali negative, come evidenziato da Francesco Riccardo in Educazione allo Sviluppo del Potenziale Personale (ed. Calzetti Mariucci).
Per resilienza invece si può intendere, secondo i termini della psicologa Edith Grotberg, la capacità umana di affrontare le avversità della vita, superarle e uscirne rafforzato e trasformato.
Insomma, la resilienza include anche la capacità di usare l'esperienza nata da situazioni difficili per costruire il futuro.
Ma tale capacità intrinseca deve essere fatta emergere, coltivata e sviluppata nel giocatore proprio attraverso lo strumento fondamentale di lavoro, che è il pallone, creando un'abitudine, rinforzandone un utilizzo naturale e spontaneo ai fini di miglioramento personale e dell'interazione collettiva, fin dal momento dell'allenamento, permettendo così di sviluppare fiducia reciproca tra singolo e gruppo, propagando sintonia e rispetto condiviso per scelte e obiettivi, riducendo la possibilità del sorgere di conflitti che possano compromettere il legame di squadra, la prestazione e dunque il risultato. Nel corso delle mie esperienze di calciatore, in questo senso, ho rilevato come in Spagna per esempio non ci sia intrinsecamente più qualità tra i giocatori, ma di certo si lavora per istituire una maggiore confidenza con il pallone, inteso come espressione primordiale del mestiere del giocatore.
Risalendo al mio vissuto in Brasile, posso certificare che il lavoro del calciatore, in allenamento, non può prescindere dal pallone, in quanto considerato come metodo naturale di espressione del giocatore.
All'opposto di situazioni di preparazione legato a un esasperato utilizzo della componente tattica che può avere effetti benefici sulla predisposizione di una squadra ad occupare gli spazi, in funzione delle diverse fasi di gioco, ma rischia di privare il giocatore dell'abitudine del rapporto personale con il pallone, magari toccato solo poche volte durante un'intera seduta ... Continua la lettura e scarica "Il valore del pallone. Lo strumento del mestiere nel cuore del gioco" di Thiago Motta
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