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Allenatori | Profili e APPROFONDIMENTI | Roberto BECCANTINI Cruijff, la cicala che cambio’ il calcio delle formiche
Prima della fama, la fame: perse il padre a dodici anni e la mamma, venduto il negozio di frutta, trovò lavoro come lavandaia all’Ajax, quando si dice la provvidenza. Per Gianni Brera, Johan Cruijff è stato il Pelé bianco. Mi dicono: ricordalo. Ci provo. Diego Maradona e Pelé, grandissimi, hanno scritto e aggiornato la storia del calcio impiegando, come penne, sé stessi: la propria classe, il proprio genio.
Alfredo Di Stefano è stato il primo a cambiarlo, moltiplicando i pani e i pesci, le mansioni e le posizioni del proprio ego, del proprio repertorio: tanto che ancora oggi si dice «giocare alla Di Stefano».
Cruijff è andato più in là, o comunque in un’altra direzione: ha cambiato il calcio sul piano squisitamente tattico. Lo prese, e con quell’Ajax e quel popo’ di Olanda lo trascinò oltre le colonne d’Ercole delle convenzioni latine degli anni Cinquanta e Sessanta, vincenti per carità, ma diverse: il Real di Di Stefano, il Benfica di Eusebio, le milanesi. E, prima che arrivassero le orde batave, l’intrusione piccante del quinto dei Beatles, George Best. Il giocatore dell’Ajax, il giocatore e l’allenatore del Barcellona: Cruijff è stato, a un tempo, artefice e simbolo della grande rivoluzione. L’ultima, vera, grande rivoluzione. Dal calcio di reparto, fondato sulle marcature e i ruoli, al calcio totale, figlio di una visione bulimica legata alla beatificazione dello spazio e non più dei suoi abitanti. E dunque aggressivo, coraggioso, quasi arrogante. Quell’Ajax e quell’Olanda erano cattedre di liberi docenti, così liberi da influenzare lo sport anche fuori (capelli lunghi, mogli in ritiro, lo spirito controculturale dei Provo come filo carsico e seduttore). E poi Rinus Michels, e poi Stefan Kovacs. Cruijff era fragile, mingherlino, ma aveva radar ovunque. Non dribblava per fuggire. Accelerava e scartava per sfidare. Ambidestro, con il lessico moderno, potremmo definirlo un «falso nueve». Capo indiscusso, era veloce di pensiero, prima ancora che di gamba.
Intuiva in anticipo le mosse degli avversari, e per questo raramente sbagliava la sua. Tre Coppe dei Campioni da giocatore e una da allenatore, tre Palloni d’oro, un sacco e una sporta di scudetti, di altri trofei. Si spinse fino negli Usa, esploratore curioso e goloso. Il Barcellona che costruì dalla panchina altro non fu che il Barcellona pilotato dal campo a un titolo storico, dopo 14 anni di carestia. «Nel calcio, la distanza massima che un giocatore deve percorrere dev'essere di dieci metri». Su questa pietra ha costruito la sua chiesa, il suo dream team, spalancando le porte del tiki taka al devoto Pep Guardiola e scolpendo un’epoca. Come tutti i batavi era cicala, era arrogante: lo dimostrò ad Atene, nel 1994, facendosi umiliare dal Milan di Fabio Capello, addirittura 0-4. Immenso com’era, è stato uno dei pochi a fare la storia anche nella sconfitta.
Capitò nel 1974, quando la sua Olanda totale e totalizzante si arrese al ruvido fervore della fabbrica tedesca. La Germania si prese il titolo; Cruijff, la memoria. Segnava, faceva segnare. Faceva, soprattutto, sognare. Non offriva mai l’altra guancia, soprattutto quando andava a discutere l’ingaggio. Sandro Ciotti gli dedicò uno splendido e struggente documentario, «Il profeta del gol».
Era un esteta, un eretico. Accompagnò il calcio verso la modernità. Con lui e con quelli che gli reggevano lo strascico, da Johan Neeskens in su e in giù, nacque il giocatore eclettico, straordinario nell’originale e grottesco nelle imitazioni, come ha sovente ribadito il passo, ambiguo, da versatile a generico. E dal momento che il destino a volte è proprio una carogna, come si è preso Johan Cruijff, uno che in vita sua non ha mai venduto fumo? Con il fumo. Impossibile dimenticarti, Johan, e grazie di tutto.
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