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Cantona. Come è diventato leggenda
Per quelli della mia
generazione Eric Cantona è stato un vero idolo di gioventù: si
favoleggiava dei suoi exploits in Premier League, lo ammiravamo in
Champions, ce lo contendevamo nei primi rudimentali videogames e,
quando giocavamo a pallone in cortile con gli amici, ci alzavamo il
colletto dicendo “orvuà”, come in una famosa pubblicità. Oggi the
King è un mito condiviso e forse un rimpianto di molti, come quei
grandi scrittori che vivono un’esistenza miserabile per poi essere
riscoperti e incensati postumi.
Il calciatore Cantona, infatti, non esiste più. Oggi Eric è qualcosa
di più: è un intellettuale a tutto tondo, che come un buon vino
d’annata migliora invecchiando. Ha vissuto nell’Olimpo del calcio da
“marginale”, da outcast, consapevole di non appartenere a quel mondo
e costantemente alla ricerca di modi per “uscire dalla fila
indiana”, come scrisse di lui una volta France Football. È stato
giudicato “il velo di latte sulla tazza di Earl Grey del calcio
inglese” (eletto miglior giocatore dei primi dieci anni della
Premier League) e contemporaneamente ha più volte fallito in Francia
e in nazionale, realizzando un percorso fatto di dicotomie
irrisolvibili.
Leggendo Cantona. Come è diventato leggenda, opera prima di Daniele
Manusia pubblicata da una casa editrice di ottime prospettive come
la torinese ADD, ho potuto riportare a galla passioni e
contraddizioni che difficilmente il calcio degli anni duemila, il
calcio mediatico e spettacolare delle pay-tv, riesce a suscitare
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