La relazione genitori-figli nello sport
Perché i bambini fanno sport? Perché hanno un istinto naturale a muoversi e si divertono un mondo. Per motivarli sono necessari però incoraggiamenti positivi e il sostegno dei genitori. Dialogo fittizio con Laura, giovanissima calciatrice.
Un vero e proprio piacere
Parole semplici che esprimono un concetto ancora più semplice ma che noi, adulti, tendiamo a sottovalutare: il divertimento. Soprattutto prima dell’adolescenza, i bisogni dei bambini sono spesso trascurati perché siamo noi a dettare le regole secondo la nostra esperienza. In ogni sport c’è qualcosa che piace al bambino e sistematicamente egli cerca di trasmetterlo a chi gli sta vicino. Se il suo entourage riesce ad ascoltare i suoi desideri e le sue esigenze, lo sport smette di essere un impegno da svolgere per forza e diventa un vero e proprio piacere. Gli stessi psicologi confermano che nel complesso rapporto genitore-figlio s’instaura una specie di transfert. |
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Inconsciamente chi genera scarica sul generato tutte le
frustrazioni e le insoddisfazioni collezionate nel corso
della vita precedente la sua nascita. Chi non è stato
brillante a scuola pretende che la prole consegua ottimi
risultati in questo ambito, chi invece avrebbe tanto
desiderato diventare un campione sportivo ma non ha
potuto coronare il proprio sogno ambisce a vedere il
figlio sul gradino più alto del podio di ogni
competizione cui partecipa.
In sintesi, i successi di un giovane atleta possono
rappresentare un punto di riferimento ideale per i
genitori (una forma di status symbol). Tramite il figlio
si vive un prolungamento della nostra personalità, in
termini di ideali e di aspirazioni realizzati attraverso
la sua riuscita.
Rimanere a contatto con la realtà
Tutto ciò parte sicuramente da buoni propositi, perché i
genitori sono automaticamente orientati a desiderare il
meglio per i figli e a evitare di commettere con loro
gli errori commessi. Ma occorre anche evitare di perdere
il contatto con la realtà.
«Il mio papà e la mia mamma invece mi fanno sempre i
complimenti alla fine di ogni partita. Anche quando la
mia squadra ha perso. Mi dicono che l’importante è
partecipare e che il risultato finale non conta. E io
penso che abbiano proprio ragione, perché dai… non siamo
mica dei calciatori veri come Ronaldinho o Kakà …»
Da vari studi condotti sul rapporto fra gli
atteggiamenti dei genitori e le attività sportive dei
figli emerge che le famiglie dei ragazzi molto dotati
sono particolarmente coese e al loro interno
intrattengono relazioni piuttosto chiuse.
Queste ricerche tendono ad evidenziare come in queste
famiglie aleggi una forma di focalizzazione sul bambino
(child-centeredness).
Ciò significa che gli adulti attribuiscono valori più elevati a dimensioni come rendere al massimo, il successo, la vittoria, la produttività, l’eccellenza, la persistenza. Dei valori che spingono padri e madri a controllare i compiti scolastici dei loro figli e gli impegni di allenamento sportivo, ad assistere alle lezioni di piano, agli incontri di nuoto, alle partite di basket, a preoccuparsi spesso di iscrivere il bambino alle attività per cui è dotato, fungendo da primi insegnanti e partecipando direttamente.
Il genitore «utile allo sport»
«La mia maestra ha detto che da quando ho cominciato a giocare a calcio con l’allenatore sono molto più ‹disciplinata› in classe. Ho chiesto alla mamma cosa volesse dire questa parola e mi ha spiegato che significa comportarsi meglio e ascoltare quando gli altri parlano e ha detto che è vero, perché anche a casa sono più brava…»
I bambini che praticano regolarmente un’attività sportiva guidata possono trarre insegnamenti sociali molto utili da questa esperienza, a patto però che nel progetto di formazione sportiva i genitori occupino uno spazio adeguato. In altre parole, la famiglia deve essere coinvolta in modo equilibrato nella «carriera sportiva» del giovane. Nelle pubblicazioni di psicologia dello sport il genitore «utile allo sport» è definito nel modo seguente:
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è presente, si impegna a conoscere e capire il proprio figlio per le qualità, i limiti, le intenzioni, i desideri, i bisogni, gli errori ed i successi;
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stima il figlio nonostante gli errori e i limiti;
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rispetta le regole, gli avversari, gli allenatori e gli istruttori e le decisioni arbitrali;
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fa critiche costruttive utilizzando messaggi chiari;
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incoraggia a competere sulla base delle proprie capacità;
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rispetta il ruolo dei tecnici (allenatori e istruttori) e collabora con loro, evitando di esprimere rimostranze o critiche in presenza dei figli;
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chiede, se lo ritiene opportuno, chiarimenti ai tecnici evitando così di alimentare pettegolezzi che creare tensioni tra gli atleti.