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Tema quantomai
discusso, il triangolo genitore - figlio - allenatore nel mondo
dello sport giovanile (ma non solo), è di rilevanza storica e
attuale.
Il calcio è uno sport di squadra e come tutti gli sport di squadra
si fonda su un gruppo di atleti - giocatori, diretti da uno o più
tecnici. Perché un gruppo sia sano è necessario che si basi su delle
regole che da tutti devono essere rispettate. In questi anni di
militanza nel settore mi sono accorto di ragazzi (anche bravi), che
hanno vissuto sin dai primi passi calcistici la culla dei
complimenti perpetui dei genitori, parenti e amici (a volte anche di
qualche dirigente), vivendo idolatrati all'inverosimile.
Il risultato?
La totale convinzione del bambino, poi ragazzo, di essere
“invincibile”, di avere mezzi tecnici che lo possono proiettare
molto presto nel calcio che conta: basta aspettare, perché prima o
poi il futuro già disegnato si tramuterà in realtà. Una situazione
pericolosa che a volte porta la giovane psiche del ragazzo a
dimenticare che per raggiungere il traguardo ci vuole lo sforzo, la
fatica, il sacrificio: nessuno regala niente. Il sentirsi superiore
ai compagni ed essenziale per il gruppo costituisce un'errata e
pericolosa impostazione della figura del ragazzo. Questo un
allenatore lo sa.
Premetto senza dubbi che se la società si pone come obiettivi e la
crescita dei ragazzi e il risultato sportivo, alla domenica schiero
in campo la migliore formazione che ho a disposizione.
E i ragazzi che non partono tra gli undici o tra i diciotto?
A - sono infortunati o malati;
B - sono squalificati;
C - hanno “saltato” il 60% delle sedute di allenamento (due su tre);
D - nel corso della settimana hanno dimostrato poca attenzione,
scarso interesse (questi atteggiamenti molti genitori non li
vedono!);
E - hanno mezzi tecnici o condizioni fisiche inferiori rispetto ai
loro compagni (a volte non notano neanche questi importanti
fattori).
Il problema sorge appunto quando, in relazione all’ultimo punto, un
padre si convince o convince il figlio del contrario.
Molti genitori vivono con il desiderio che i propri figli debbano a
tutti i costi diventare quello che essi non sono mai diventati in
gioventù. Ho conosciuto ragazzi che soggiogati da queste convinzioni
si trovano smarriti alla prima esclusione per scelta tecnica, persi,
non trovando spiegazione alcuna e dannatisi l'anima per un po' si
trovano isolati e soprattutto mal consigliati, finendo in moltissimi
casi, con l’abbandonare l’attività sportiva con probabili sintomi di
depressione. Altri, più sportivamente “educati”, vivono il calcio
serenamente per come deve essere vissuto; quando i genitori non
mettono pressione al figlio, ovvero non gli fanno pesare la maglia
dal numero dodici in su, anche il ragazzo saprà vivere la realtà
dell’esclusione, la sostituzione nel modo in cui deve essere
vissuta, ovvero con delusione ma non con rassegnazione, anzi. In
molti casi vengono scatenate delle polemiche tra genitori e società
che non hanno motivo di nascere se non dalla rabbia di un padre o di
una madre che non si capacitano del fatto che il proprio erede
palesa dei limiti rispetto ai compagni di squadra e per questo gioca
di meno. (Attenzione: gioca di meno, non ho detto non gioca!). E
sono a dir poco inquietanti e ridicole le antipatie che si creano
tra nuclei famigliari ai bordi del campo dipendenti unicamente dal
fatto che un ragazzo sia più titolare o meno rispetto ad un altro.
A volte, sembra paradossale, sono solo i genitori a "soffrire" la
panchina del figlio, quando questi se ne sta tranquillamente seduto
al fianco del mister a incitare i compagni vivendo lo sport come
deve essere vissuto!
Senza voler fare di tutta l’erba un fascio intendo affermare che vi
sono anche ragazzini "educati" a saper vincere e perdere, a non
esaltarsi per le vittorie, ma anche a non abbattersi per delle
sconfitte, a "digerire" le esclusioni e a non sentirsi
“onnipotente”. E questo tipo di educazione a chi spetta, chi la deve
impartire? L'allenatore, coadiuvato dalla società, ha il compito di
educare allo sport, a insegnare i comportamenti da assumere in virtù
delle attività da svolgere in campo (allenamenti, gare, vittorie,
sconfitte, ecc.); egli ha altresì l'obbligo di correggere eventuali
poco consoni atteggiamenti che avvengono al di fuori del rettangolo
di gioco: in trasferta, all'interno dello spogliatoio, nei mezzi
pubblici ecc. Per educazione sportiva s’intende il miglioramento
psicologico, tecnico - tattico del giovane atleta, l’insegnamento
della sconfitta, della vittoria, dell’esclusione, della sostituzione
nonché il rendere il gruppo consapevole che le regole sono uguali
per tutti e le scelte le fa esclusivamente l’allenatore.
D’altra parte è messo lì per quello, e comunque, da quando il calcio
è calcio l’allenatore è sempre stato a disposizione dei giocatori
per uno o più eventuali dialoghi di chiarimento che, attenzione, non
è detto debbano essere necessariamente di natura tecnico - tattica.
Bisogna però ricordare che la crescita di un ragazzo che vuole
giocare a calcio o fare qualsiasi sport dipende in modo più che
importante dall’educazione di base impartita dalle famiglie sin dal
primo giorno di nascita del proprio figlio. Concludo affermando che
in una squadra di calcio, ogni domenica ci sono undici ragazzi
contenti e sette ragazzi meno contenti; tra questi ultimi sette ce
ne saranno sicuramente due o tre anche molto arrabbiati. E’ normale:
se non fosse così ci troveremmo a guidare delle squadre prive
d’anima. L’importante è prendere l’esclusione come motivo di rivalsa
più che come motivo di resa e noi genitori questo abbiamo il dovere
di insegnarlo.
Autore
Claudio Damian, Allenatore di Base e ideatore di farecalcio.it
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