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La
società occidentale sta cambiando continuamente e repentinamente. La
giornata “tipo” del bambino di oggi è diversa da quella del suo
coetaneo di venti, quindici, dieci anni fa. Le caratteristiche
principali di questo cambiamento riguardano le situazioni che egli
vive: gli spazi liberi utilizzabili per giocare sono sempre di meno
ed il tempo a sua disposizione viene speso in prevalenza per
attività nelle quali il movimento è una componente marginale. Questa
purtroppo è una costante della maggior parte degli ambienti da lui
vissuti, sia nelle ore trascorse a scuola che in quelle appartenenti
al cosiddetto tempo libero.
L’ambiente urbano è ormai imbottito di traffico e malvivenza, tanto
che i genitori non si fidano a lasciar giocare i bambini per strada.
Lo sviluppo delle tecnologie d’appartamento, come il personal
computer e la play station, inoltre, sembrano invitarli a vivere
quasi solo tra le mura domestiche. Internet e i telefoni cellulari
stanno modificando fortemente il modo con il quale si relazionano
tra di loro. Questi cambiamenti si ripercuotono sulla capacità di
rapportarsi con l’ambiente, da un lato, e con le persone,
dall’altro. La prima conseguenza è quella di una crescente fragilità
strutturale, perché meno ci si muove e meno il proprio corpo si
adatta a farlo, rischiando di infortunarsi al mutare delle
situazioni esterne. Non solo. Muoversi poco e male nei primi anni di
vita comporta dei problemi nella formazione anatomica del cervello.
Alla nascita, infatti, il tessuto nervoso non è formato, ma
semplicemente “abbozzato”, grazie alla presenza di un certo numero
di neuroni. Quei neuroni necessitano però di stimoli quotidiani
provenienti dall’esterno per rafforzare i contatti tra loro sia in
quantità che in qualità. Un cervello che cresce e si forma in un
bambino che si muove poco, quindi, sarà il cervello di un adulto
limitato, non solo nelle funzioni motorie ma in tutta la sfera
cognitiva.
Ecco perché la fragilità delle strutture scheletriche, muscolari,
tessutali e soprattutto nervose va prevenuta e l’unico modo per
farlo è garantire al bambino nei primi anni di vita un elevato
numero di esperienze, attraverso l’utilizzo di tutte le vie
predisposte a ricevere informazioni dall’ambiente: quelle visiva,
uditiva, olfattiva, gustativa, tattile… ma anche e soprattutto
quelle vestibolari e cinestesiche, in grado di dare informazioni
relative all’equilibrio e alla posizione del proprio corpo nello
spazio. In appartamento o seduti ad un tavolo queste vie vengono
utilizzate solo in minima parte e le risposte motorie non possono
che essere poche e scadenti. Tra le mura domestiche, inoltre, si
incontrano pochi coetanei. I bambini di oggi parlano sempre di meno
ed invece si rapportano con gli altri digitando e chattando.
L’effetto di tutto questo è una crescente solitudine, sommata ad una
diminuzione del dialogo, ad una modifica dei processi utilizzati per
comunicare, all’uso di un linguaggio sempre più povero. Lo sviluppo
cognitivo del bambino passa attraverso il rapporto con l’ambiente e
quello con gli altri e quindi i bambini del prossimo futuro
rischiano di non sfruttare appieno le proprie potenzialità. La
carenza di confronti con sé stessi (muovendosi) e con gli altri
(parlando) forse non comprometterà l’intelligenza, ma sicuramente
influirà negativamente su autocontrollo e fiducia in sé stessi.
Parafrasando una nota pubblicità, si potrebbe ricordare che
“l’intelligenza è nulla senza controllo”.
La maggior parte del tempo, però, i bambini lo trascorrono a scuola.
L’inadeguatezza dell’ambiente urbano alle loro necessità, quindi,
potrebbe in parte essere compensata da un’ideazione dei contenuti e
degli spazi in ambito scolastico capace di garantirgli quel
movimento che il resto del mondo ormai gli proibisce. Se la finalità
della scuola è quella di educare e formare i cittadini del futuro,
come può non avere negli obiettivi principali quello di permettere
alla potenzialità cognitiva di esprimersi nella sua interezza? Il
sistema scolastico attuale, pur riconoscendo teoricamente al
movimento la stessa dignità delle altre materie, lo porta, in
pratica, ad avere un ruolo marginale nel percorso formativo dei
giovani. Le cause sono principalmente due: il modo con il quale
vengono formati gli insegnanti (percorso magistrale) non sempre
utilizza il giusto approccio nei confronti dell’importanza del
movimento umano, non considerandolo preponderante per un equilibrata
attuazione dei processi cognitivi ma relegandolo a banale elemento
ludico, utile quasi esclusivamente a far riposare il cervello tra
un’attività cognitiva e l’altra; le strutture, inoltre, a livello
nazionale sono molte volte inadeguate per permettere a chi di dovere
di proporre nel migliore dei modi l’attività motoria. Di conseguenza
al primo problema si hanno insegnanti che non danno il giusto peso
all’attività motoria, oppure che, pur intuendone l’importanza, si
trovano privi degli strumenti indispensabili per poterla proporre
correttamente e quindi “senza fare danni”. Dalla mancanza di
strutture adeguate, invece, consegue una vera e propria
impossibilità a far muovere i bambini. Il tutto in una
programmazione che riserva al movimento solo qualche briciola
dell’orario settimanale. Si pensi che l’educazione fisica non è
prevista negli asili nido, mentre nella scuola dell’infanzia e in
quella primaria è lasciata alla buona volontà degli insegnanti, non
più di un’ora a settimana. In alcuni casi sono i genitori ad
accollarsi la spesa di qualche integrazione, chiamando ad
intervenire professionisti extrascolastici. Un insegnante di
educazione fisica vero e proprio compare solo nella scuola
secondaria e non ha a disposizione più di cento minuti alla
settimana. A dieci anni, però, lo sviluppo motorio del bambino è
ormai in gran parte compromesso, tanto che risulterà sempre più
difficile intervenire per migliorarlo in futuro. Ogni settimana,
inoltre, viviamo centosessantotto ore. Anche se il bambino ne
dormisse la metà, gliene rimarrebbero ottantaquattro da trascorrere
sveglio. E praticare attività fisica nella scuola secondaria per due
ore alla settimana significa dedicare all’educazione motoria un
tempo irrisorio rispetto al totale delle ore a disposizione. In
realtà il movimento dovrebbe essere tanto e di qualità. Nella
necessità di ridurlo, si dovrebbe intervenire sugli anni successivi
a quelli dell’infanzia, mentre attualmente avviene proprio il
contrario. E’ disarmante che sia proprio la fascia d’età 0-6 anni
quella più scoperta dal punto di vista motorio, visto che si tratta
del periodo più importante nello sviluppo del bambino.A tutto questo
si aggiunge una “tendenza generale” da parte di componenti esterni
alla scuola (genitori e mass-media) ad accelerare i tempi, bruciando
le tappe. Così già agli asili nido i bambini sono chiamati a
compilare schede, a sedersi al tavolo, ad allontanarsi dal loro
istinto di muoversi e giocare usando il proprio corpo, per iniziare
il prima possibile a sviluppare solo alcune delle loro facoltà
mentali. Alla scuola dell’infanzia succede la stessa cosa, tanto che
la maggior parte di loro arriva alla scuola primaria già in grado di
leggere e scrivere. Da questa “corsa contro il tempo”, però, ne esce
sconfitto soprattutto il bambino, che vede privilegiare a torto solo
alcuni aspetti del suo percorso evolutivo, a scapito, purtroppo, di
quelli più importanti. L’unica soluzione possibile sembrerebbe
essere quella di una revisione radicale del sistema scolastico
nazionale. I bambini dovrebbero partire dall’esperienza, dal gioco.
Da li dovrebbero scaturire quegli stati di necessità che permettano
poi di approfondire sui libri le varie materie. Dal giardino, dal
campo giochi, dalla palestra dovrebbero nascere i presupposti della
curiosità e del bisogno di conoscenza. Seguendo l’orientamento
attuale, invece, l’educazione fisica troverà sempre meno spazio
nelle scuole. I bambini saranno sempre prima e sempre più in fretta
indottrinati, informatizzati, omologati.
Le strutture degli uomini occidentali saranno, conseguentemente,
sempre meno adatte a muoversi e tutte quelle attività che richiedono
un elevato contributo motorio ne risentiranno. I lavori fisicamente
più impegnativi, come quelli edili o agricoli, verranno
probabilmente svolti da uomini nati in Africa, in Asia ed in Sud
America, cresciuti in un ambiente stimolante e non inibente. Lo
sport, che dovrebbe rappresentare l’esaltazione del movimento umano,
subirà un cambiamento simile, vedendo primeggiare sempre più gli
atleti provenienti da quegli stessi Paesi. E’ solo una questione di
tempo: quando i vantaggi ambientali saranno accompagnati da un
aumento di cultura sportiva, il gioco sarà fatto. Troppe volte si è
data una spiegazione di natura “genetica” alla grande abilità dei
brasiliani di giocare a calcio o dei cubani di giocare a pallavolo.
La componente genetica è fondamentale nella formazione di un talento
sportivo, ma non si dimentichi che nella formazione e nello sviluppo
del sistema nervoso, l’apporto genetico è relativo e soprattutto è
condizionato fortemente dagli input provenienti dall’ambiente
esterno nei primi anni di vita.
Quindi è difficile che senza una base genetica un bambino diventi un
talento, ma è altrettanto difficile che con una base genetica
sufficiente, un bambino possa diventare tale senza le sollecitazioni
adeguate provenienti dal mondo in cui cresce e vive. Da anni si
sprecano i dibattiti su “come” allenare un atleta, su quanto una
buona metodologia d’allenamento possa incrementare le possibilità
che un individuo geneticamente dotato arrivi a fare sport ad
altissimo livello. Il calcio italiano sta perdendo sempre più in
“qualità”. Più che in serie A, dove la presenza di giocatori
stranieri in parte compensa tale lacuna, lo si può notare nei
campionati professionistici minori, dove è palese l’impoverimento
tecnico generale. Visto che la predisposizione genetica degli
italiani a giocare a calcio non dovrebbe essere mutata di molto da
vent’anni a questa parte, si finisce spesso con il dare la colpa
alla scuola calcistica. In Italia si sarebbe prediletto per anni (ed
è vero) l’insegnamento della tattica e l’irrobustimento fisico dei
giovani calciatori a scapito della cura della tecnica. In Italia, in
pratica, si sarebbe preteso di allenare calcio senza proporre
calcio. Una pretesa che, alla luce delle poche ore dedicate dai
bambini al gioco del calcio, ha preso le sembianze di una
presunzione. Spesso si prende ad esempio la scuola brasiliana. Bene:
in Brasile innanzitutto si gioca a calcio. Non c’è un metodo
scientifico, una via studiata a tavolino per “costruire” talenti; ci
sono la strada, il gioco libero, la creatività. E nella strada c’è
una componente fondamentale troppo spesso trascurata nelle analisi
intellettuali occidentali: la quantità. Perché è indiscutibile che
meglio un atleta lavora e più è facile che si migliori, ma se quella
qualità è concentrata in un numero di ore irrisorio, rischia di
diventare inutile. La strada brasiliana, senza allenatori,
preparatori atletici, macchine di potenziamento muscolare,
elettrostimolatori, è in grado di aiutare gli elementi geneticamente
predisposti ad eccellere nel gioco del calcio molto di più rispetto
alle alchimie tecnologiche occidentali, semplicemente perché il
tempo dedicato al gioco da parte dei bambini brasiliani è
decisamente superiore rispetto a quello dedicato dai nostri bambini.
Gli allenatori sportivi dovrebbero cercare di intervenire sulla
motricità dei loro allievi in modo da aiutarli a migliorare,
favorendo confronti utili. Quegli stessi confronti che il gioco
spontaneo permetterebbe di compiere in tempi più dilatati. I
vantaggi derivanti dalla presenza di un allenatore però, passano
attraverso due condizioni: il livello professionale dell’allenatore
e il numero delle ore comunque dedicato alla disciplina. Quando la
differenza tra le ore dedicate alla disciplina sportiva libera da un
bambino brasiliano e quelle dedicate alla disciplina sportiva
guidata da un bambino occidentale è troppo marcata a svantaggio del
secondo, gli accorgimenti metodologici diventano irrilevanti.
I talenti sportivi occidentali diminuiranno sempre più, fino a
quando il modello di vita non cambierà, fino a quando non verranno
restituiti ai bambini quegli spazi e quei momenti ludici
indispensabili per il loro sviluppo. Solo così si potrà invertire la
tendenza, permettendo di trarre vantaggi a tutti, non solo agli
sportivi. Perché un’infanzia in movimento garantirebbe uno sviluppo
più equilibrato anche a chi successivamente decidesse di vivere
seduto ad una scrivania. Nello sviluppo cognitivo, come visto. E nel
gettare le basi per una salute più duratura. In tal senso vanno
sensibilizzate le famiglie. In questa direzione, soprattutto, deve
indirizzarsi il dibattito sulla scuola. Per ottenere risultati
concreti va per forza di cose riconsiderata la valenza educativa
dell’attività motoria. Nei fatti oltre che nelle parole, aumentando
drasticamente il numero delle ore settimanali da dedicare al
movimento. L’obiettivo finale è quello di ritornare ad una società
più vivibile ed equilibrata. Una società che permetta di nuovo ai
bambini di giocare all’aria aperta. E questo può avvenire solo dopo
aver cambiato la scuola, il modo con il quale si formano i bambini,
gli stati di necessità che in loro si inducono. Saranno loro, poi, a
cambiare la società in cui si troveranno, perché la riterranno
inadeguata. Saranno loro che restituiranno alle generazioni future
quell’ambiente vivibile che noi abbiamo perduto.. |
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