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Il Portiere di
riserva. Pali, traverse, facce e panchine.
Con Torino (e il Toro) nel cuore
Ormai l’ho capito, anzi no! Leggere
un libro di Darwin Pastorin è
un’esperienza d’immagini e
sensazioni che pensavo di aver ormai
assaporato una volta per tutte e
invece al prossimo libro tutto ti
ritorna sempre addosso con nuova
freschezza letteraria. L’infanzia
brasiliana, dispersa in una
tabucchiana memoria per tutto quello
che era dolce, la Torino del
miracolo economico, tra gli
immigrati del Sud che hanno “fatto”
l’Italia con le mani e il cuore,
scalfendo una barriera culturale
almeno fino agli anni ’70 difficile
da superare (anche se la chiusura
culturale vera e propria è stata
superata del tutto quando ha
cambiato d’abito, incancrenendosi
ancora di più, e si è rivolta verso
il non italiano), il lavoro di
giornalista in mezzo ai protagonisti
senza l’obbligo dell’amicizia per
dovere e la speranza del salto di
ufficio, la non spiegabile estasi
del diventare padre e del prendersi
cura della vita come compito più
difficile e meraviglioso che ci sia.
Tutto questo Pastorin lo ha già
diluito nelle sue opere precedenti:
“Tempi supplementari”, racconti
delle passioni di un ragazzo-uomo,
“Lettera a mio figlio sul calcio”,
riflessione su come va questo pazzo
mondo, “Avenida del Sol”, dove
storia e valori di un Paese non
danno vita al solito depliant
turistico. L’ultima fatica
letteraria di Pastorin, “I portieri
del sogno” (Einaudi, 86 pag., 2009),
riprende tutti i fili che fanno scia
allo scrittore Pastorin per un
ricamo ancora una volta nuovo e
pieno di armonia. I portieri sono i
soliti pazzi, tristi, diversi
protagonisti di un universo di segni
ormai riconosciuto. Ma partendo dal
già detto, le pagine di Pastorin non
buttano via i soliti stereotipi
intorno ai portieri, indagando
invece i momenti in cui hanno deciso
di fare storia, magari subendola
(Zoff e la presa sulla linea contro
il Brasile nell’82, Quiroga e la sua
marmelada, Rojas e la sua
sceneggiata), oppure gettando un
occhio verso il non conosciuto, tra
le voglie culturali di Giuliano
Terraneo, l’astratta presenza del
Van der Sar juventino, Chilavert e
la sua amicizia con Augusto Roa
Bastos, autore di “Yo, el Supremo”,
“il libro civile” della letteratura
sudamericana. Il sogno del titolo ha
tanti inconsci: quello di Pastorin
che scrive per Einaudi dopo aver
tanto letto e imparato, quello di
Buffon che in prefazione ci dice
semplicemente che quello che voleva
è un sogno arrivato a segnarne la
strada, quello di tutti i
protagonisti dei racconti, da Gilmar
e le sue sognanti ginocchia che
(mai) hanno visto il Pastorin
bambino, a Joao Leite, il cui sogno
è far capire a tutti che Dio è più
grande delle nostre pochezze, dal
sogno della poesia di Saba che
diventa carne, al sogno del Che,
portiere per caso e sognatore di
professione. |